Don Chisciotte e l'islam, di Gianni Ferracuti
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Gianni Ferracuti: Don Chisciotte e l’islam

Don Chisciotte e l’islam

Qui comincia l’avventura…
o Sarajevo blues

Per il cavaliere dei romanzi, quello che – secondo gli uomini di sano buon senso – non esiste nella storia, la guerra è un dato di fatto: la combatte, ma non rappresenta l’istanza superiore. Al di sopra della guerra, come la intendono gli eserciti, ci sono le virtù cavalleresche, che non sono solo virtù militari. Nella guerra il cavaliere non cerca la ricchezza, né il potere: cerca la gloria. Battere un uomo debole non è impresa di valore, non procura gloria né fama, anche se potrebbe portare un discreto bottino. Piuttosto se si vuole mostrare al mondo il proprio coraggio e la qualità della propria sostanza umana, è più proficuo mettersi davanti a un ponte e imporre al viandante che lodi la propria dama, alla cieca: se lo fa, vuol dire che nel suo cuore non albergano valori cavallereschi, e non vale la pena di battersi con lui. Se non lo fa, vuol dire che ha fegato, che accetta di spezzare una lancia in duello a rischio di rimetterci qualche osso, e dunque ha un coraggio con cui ci si può misurare.

Con ciò si produce un’altra possibilità: un tizio sconosciuto, che mai avrebbe pensato di recarsi proprio presso quel ponte insignificante e anonimo, viene a sapere della sfida e sconvolge tutti i piani della sua esistenza per andare proprio lì, su un ponte che non porta a nulla, sopra un fiumiciattolo ignaro e fangoso, solo per poter dire in faccia a un illustre ignoto che non ha alcuna intenzione di lodare la sua dama, neanche se fosse la regina di Cappadocia. Potrà stupire la stranezza, ma la cosa è storica, è avvenuta più volte, ed è una sindrome che ha un nome ben preciso: avventura.

Circa quattro secoli fa, un oscuro idalgo di paese, di cui le cronache parlano poco e confusamente, al punto che abbiamo faticato molto per conoscerne il nome, decide di lasciarsi alle spalle una vita non lussuosa, ma tranquilla e, nonostante la non giovanile età di cinquant’anni, esce di casa silenziosamente nella notte e va in cerca di avventure. Rinuncia alla sua identità, al suo ruolo sociale, peraltro ormai vago e prossimo all’insignificanza, e assume il nome di battaglia di Don Chisciotto della Mancia. Cattivi traduttori hanno diffuso il suo nome nella forma Chisciotte, che ormai è talmente generalizzata nell’uso che non vale la pena di provare a cambiarla. Habent sua fata libelli, commentò il retore citando il poeta latino (c’è sempre un poeta latino per ogni occasione).

Il nostro eroe si prepara per giorni segretamente, consapevole dell’impossibilità che le ristrette menti dei suoi familiari possano comprendere la nobiltà e la grandezza del suo disegno, e infine si chiude delicatamente la porta dietro le spalle, conduce piano il suo destriero a debita distanza da casa, per non farsi sentire, quindi gli sale in groppa e si allontana.

La storia è raccontata da una cronaca scritta in arabo da un tale Cide Hamete Benengeli, di cui ci è pervenuta solo una redazione in castigliano, elaborata a partire da una traduzione intermedia fatta da un anonimo traduttore in cambio di pochi spiccioli. Noi, che utilizziamo alcune fonti inedite, fortunosamente giunte in nostro possesso, possiamo garantire che, prima di allontanarsi con una galoppata propiziatoria, il nostro don Chisciotte ha fatto una piccola deviazione per dare un ultimo sguardo al Toboso, terra della sua amata signora Dulcinea, alla quale avrebbe poi mandato, per renderle omaggio, tutti gli avversari sconfitti a singolar tenzone.

In quel tempo il Toboso doveva avere un aspetto diverso dall’attuale. Terra ad alta densità moresca, sarà stato decorato da qualche minareto ancora in piedi e dalle tombe di gente sepolta alla maniera dei musulmani: basse colonne che spuntano da terra non nei cimiteri, ma nei giardini delle moschee, o dove capita, senza un ordine particolare. Per vedere qualcosa di simile bisogna andare oggi a Sarajevo, arrivarci magari all’imbrunire di una giornata uggiosa, camminare per strade che non sembrano diverse da quelle abituali dei nostri paesi, a parte qualche rudere lasciato dalla guerra e rimasto in piedi per caso, e sorprendersi ascoltando improvvisamente la lenta litania di una preghiera araba che giunge da una moschea nascosta dietro l’angolo. Alcune donne col chador escono per la preghiera della sera e, andando verso il centro, si fiancheggia un giardino pubblico in cui, a gruppi di quattro o cinque, si vedono spuntare da terra queste strane, basse colonne di marmo bianco. Si trovano dovunque, intorno a ogni moschea e, salendo verso la parte collinare della città, decorano ogni metro quadrato di verde, a volte con una densità impressionante, che gela il sangue: sotto ogni colonna c’è una vita, generalmente giovane, spezzata da un cecchino durante l’assedio della città – si sparava ai musulmani perché erano musulmani. A centinaia di chilometri di distanza, si sparava su ogni casa di Dubrovnik, perché era bella, antica, e significante: due assedi, due atti di una stessa follia, e non si dà l’uno senza l’altro. Se si vuole ammazzare un tizio perché ha una fede, una credenza, una cultura, bisogna eliminare lui, la sua casa, la sua storia, la sua famiglia, il suo giardino, la sua memoria, i suoi animali, i suoi simboli, le sue biblioteche, la sua musica e persino le sue nevrosi…

Le piccole tombe islamiche del Toboso non erano recenti, anche se costituivano un’immagine abituale. Dopo la caduta del regno di Granada (1492) – quasi ridotto a un museo, a un fossile politico, impossibilitato a essere a una forza preoccupante, eppur capace di resistere una decina d’anni all’esercito castigliano – gli spagnoli cristiani si rimangiano presto la promessa di consentire la libera pratica della religione islamica a quei cittadini islamici di Spagna, che erano loro concittadini; tentano una maldestra opera di evangelizzazione, servendosi peraltro di un clero non all’altezza e non credibile, e infine iniziano a prendere misure di pulizia etnica, sradicando per legge ogni usanza legata ai costumi islamici. Erano terre da ripulire – alimpiar, potremmo dire usando un verbo già sentito dalla bocca della regina Isabel e rivolto alla necessità di ripulire il territorio dalla presenza dei suoi concittadini spagnoli di religione ebraica: a quell’epoca era divenuta fondamentale la limpieza de sangre, la pulizia del sangue… e siccome il sangue, nella società in cui si è nobili per diritto ereditario, è ciò che trasmette i valori e le virtù della famiglia e della stirpe, o ethnos, non è sbagliato tradurre limpieza de sangre con pulizia etnica.

Rivolgendo un ultimo saluto alla sua Dulcinea, don Chisciotte si muove senza alcun imbarazzo tra le piccole colonne sparse nel paesaggio. Dulcinea del Toboso è una nobile e bellissima dama, il cui rango è almeno principessa, perché tale è il livello ideale a cui la cortese arte cavalleresca di don Chisciotte ha innalzato la robusta contadinotta Aldonza Lorenzo… ahimè, senza preoccuparsi minimamente del suo lignaggio e del suo sangue. Queste cose non hanno alcuna importanza nel mondo dell’avventura – pensa saggiamente il nostro cavaliere. Si sbaglia.

Gianni Ferracuti:
Don Chisciotte e l’islam
(Il gran mondo del teatro e alcune eccellenti ragioni per cui al saggio governante conviene eliminare i comici..
.)