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Gianni Ferracuti: Modernità di Evola (1987)

Modernità di Evola
Gianni Ferracuti

[«Modernità di Evola» è un saggio del 1987 disponibile anche in volume cartaceo nella raccolta «L’invenzione del tradizionalismo», dello stesso autore, disponibile online]

 

  1. Idealismo e tradizione nei primi scritti di Evola

Nella presentazione della prima edizione di Fenomenologia del­l’Individuo Assoluto, scritta nel 1924 ma pubblicata sei anni dopo, quando aveva abbandonato l’idealismo filosofico, Evola afferma che la sua opera idealista «costituisce l’esposizione della nostra dottrina in termini puramente filosofici».[1] Pone così un’evidente differenza tra la «dottrina» e la sua «esposizione» secondo un particolare lin­guaggio, ovvero secondo le regole di una disciplina quale la filoso­fia. Precisa infatti: «Nei suoi elementi essenziali, ciò che esponiamo non è il sempli­ce prodotto della speculazione soggettiva di un filosofo moder­no, sì invece la trasposizione intellettuale di certe dottrine tradi­zionali, primordiali, non soggette, in un certo senso, al divenire».[2] Spiega anche in che senso sia da intendere quest’idea di un’espo­sizione in termini filosofici di una dottrina non filosofica: «Noi siamo partiti da una certa conoscenza di carattere non-filo­sofico, atta a render conto deduttivamente di quanto si cela in simboli e miti tradizionali, e da essa, con una adattazione, una ri­duzione e una negazione, abbiamo ricavato un “sistema” filosofi­co».[3] Questa posizione di Evola, a dispetto della sua apparente chiarez­za, lascia qualche perplessità relativa alla natura di ciò che Evola chiama conoscenza non filosofica o, nel Cammino del Cinabro, re­troscena «extra-filosofico».[4] È probabile che si alluda sia a esperien­ze personali di una certa intensità, sia a una particolare cultura i cui fondamenti (a torto o a ragione) vengono esonerati dalla necessità di una giustificazione razionale. Nel Cammino del Cinabro, ripercor­rendo negli anni Sessanta del Novecento le fasi della sua biografia intellettuale, Evola parla di una sua crisi profonda negli anni giovanili della for­mazione, risolta con il destarsi in lui di una forza capace di orientare positivamente tutta la sua vita. Però specifica anche che gli strumenti culturali, di cui disponeva all’epoca, erano molto precari e poco affi­dabili. Sembra di capire che si riferisca proprio alla conoscenza non filosofica cui si alludeva: «Subito dopo la guerra, la mia attenzione si era portata diretta­mente su dottrine sapienziali, specie orientali, a tutta prima fa­cendo da tramite, spesso, quel che di esse era stato fatto conosce­re da correnti spurie contemporanee, teosofistiche e “occultisti­che” […]. Si trattava però di miscugli».[5] Aggiunge ancora:

I miei primi scritti del periodo filosofico (anche saggi e confe­renze) risentirono dunque di una commistione tra la filosofia e le accennate dottrine, commistione che talvolta si presentò come una contaminazione non nei riguardi della prima, ma piuttosto delle seconde, le quali – come in seguito dovevo nettamente rico­noscere – subivano una forzata, estrinseca razionalizzazione.[6]

È chiaro che, in tempi diversi, Evola ha dato due valutazioni dello stesso fatto, la congiunzione tra filosofia idealista e dottrine sapien­ziali: da giovane credeva di esporre in termini filosofici una dottrina che, in sé, non aveva nulla a che fare con la filosofia; posteriormente ha riconosciuto che questa dottrina non filosofica in realtà egli l’ave­va mal compresa, proprio perché, inconsapevolmente, l’aveva previa­mente interpretata con l’ottica deformante della filosofia idealista. Era giunto a conoscenza delle dottrine sapienziali attraverso la me­diazione, non neutrale, di correnti spurie, che avevano deformato il sapere tradizionale. Da qui il fallimento del tentativo filosofico e l’i­nizio di una lunga serie di revisioni e «superamenti»: dal 1929 Evola cercherà di purificare la sua interpretazione della cultura tradizionale, eliminando la razionalizzazione che essa aveva subito.

Che il primo approccio di Evola alla cultura tradizionale avvenga a partire da una prospettiva idealista è del tutto evidente nei testi del­l’epoca. Nell’introduzione a L’uomo come potenza, del 1926, Evola sottolinea che il crescente interesse per l’Oriente e la sua cultura, da parte del pensiero occidentale, si deve alla natura stessa delle «forme a cui l’ultima cultura europea è stata portata autonomamente, secon­do una storica continuità».[7] Tale continuità ha una notevole impor­tanza in questa fase: si tratta di una nozione con sorprendenti tratti di progressismo, opposti alla concezione matura del nostro pensatore, che in seguito sarà più incline a pensare al percorso storico come a un processo di decadenza. In questa fase giovanile Evola non mostra segni di antiprogressismo, anzi ritiene positivo il cammino culturale dell’Occidente, in linea con il modo idealista di intendere la storia. Scrive, ad esempio, nei Saggi sull’idealismo magico, del 1925, che non bisogna ignorare che l’ultima filosofia europea (l’idealismo) «contiene una concezione del mondo comprensiva ed inevitabile, fio­re di una bimillenaria civiltà».[8] Evola ha dunque fatto propria in que­sti anni la concezione evolutiva del cammino storico, che rifiuterà in seguito, a partire dagli Anni Trenta, e la riprova sta nel fat-to che, quando inizierà la sua critica all’idealismo, proprio questa concezio­ne verrà attaccata: nel 1934 l’idealismo sarà accusato di aver costrui­to arbitrariamente un’interpretazione del passato storico a proprio uso e consumo, per sostenere l’inevitabilità dei suoi presupposti filosofi­ci.

L’approccio evoliano in questi anni è dunque quello di chi, come molti altri idealisti, si sente portato a interessarsi della cultura orien­tale partendo da una serie di principi elaborati dall’idealismo stesso. Evola se ne scuserà parecchi anni dopo, in varie occasioni, ad esem­pio in una nuova redazione della sua traduzione del Tao-te-king di Lao-tze, in cui, riferendosi alla prima versione del 1923, scrive: «In quella edizione l’opera di Lao-tze era stata assunta isolata­mente, e al suo contenuto noi avevamo dato un inquadramento interpretativo seguendo una linea di pensiero risentente dell’idea­lismo trascendentale».[9]

Che le categorie dell’idealismo non comportino necessariamente il fraintendimento della metafisica orientale è forse possibile. Però, nel caso di Evola, il problema vero è che non ci si curava affatto di evitare un simile fraintendimento, anzi si cercava deliberatamente una contaminazione o una commistione. Infatti, ne L’uomo come po­tenza, egli si pone la questione delle difficoltà cui va incontro il tra­duttore occidentale di testi orientali, per la diversa natura della lin­gua, della cultura, delle esperienze. Si rende conto, giustamente, che «tradurre un testo orientale non dovrebbe significare porre parole europee al posto, mettiamo, di parole sanscrite, bensì cercare, per una ricostruzione interiore, di rendersi conto della ragione pro­fonda di quel contenuto che nell’orientale poggiava non sull’e­spressione, bensì su un’interna appercezione».[10] Poi, però, mostra chiaramente l’equivoco di fondo che caratterizza tutta la sua opera in questi anni, perché esige che il traduttore occi­dentale si impegni a «rendere questo contenuto secondo la giustifica­zione propria alla mediazione razionale».[11] Chiede cioè che ci sia un’interpretazione su base razionale (idealista) di quei testi orientali che pure parlano di esperienze sapienziali, perché «è soltanto a questa condizione che la metafisica orientale può ingranare nella mentalità occidentale».[12] Insomma Evola si propone ciò che, nella sua fase matura, lo farà semplicemente rabbrividire: far «ingranare» la metafisica orientale (grazie alla favorevole ed inevitabile circostanza dell’idealismo) nella nostra metafisica, occidentalizzando le fonti orientali. Evo-la non rifiuta l’obiezione secondo cui ciò equivale a interpretare i testi in modo soggettivo e conformemente a un pensiero personale: questo è per lui inevitabile, giacché quel che conta è «determinare ciò che l’Oriente può essere per noi».[13]

Chi ha letto le opere tradizionaliste di Evola, si renderà conto che i suoi scritti giovanili idealisti vanno in tutt’altra direzione, e non ha alcun senso considerarli come la controparte filosofica di una concezione tradizionale e sapienziale. Non si tratta affatto di esprimere le stesse dot­trine secondo due linguaggi, ma di teorie e metodologie diverse e contrastanti. Quando scrive la frase con cui si è aperto questo para­grafo, siamo nel 1930, nel momento in cui ha appena conqui­stato nuovi punti di vista, e deve giustificare la pubblicazione di un libro scritto nel 1924, in piena fase idealista. In questo momento, in cui verosimilmente il concetto di cultura tradizionale non è stato an­cora elaborato in tutti i suoi dettagli, il rapporto tra idealismo e tradi­zione gli appare esattamente invertito rispetto a come lo vedrà venti anni dopo, quando tra le due fasi speculative gli sembrerà più oppor­tuno mettere uno iato.

 

  1. L’idealismo assoluto

Nondimeno, dalla fase idealista di Evola non si può prescindere, se non altro per la sua originalità nell’ambito dell’idealismo italiano. La sua teoria dell’idealismo assolu-to si presenta come un tentativo di mettere a nudo la reale natura dell’Io e dei suoi attributi: non solo ra­gione e conoscenza, ma anche volontà, potenza, libertà.

Preliminarmente, nella Teoria dell’individuo assoluto, Evola defi­nisce i concetti di essere e valore. Valore è la «relazione assoluta fra il nudo principio dell’Io e quanto nell’Io è distinto da tale principio»,[14] cioè tra Io e non-Io. La nozione di non-Io equivale alle realtà concretamente esistenti nel mondo, a ciò che almeno inizial­mente ci si presenta come cosa, oggetto, altro dall’Io e dotato di una sua indipendenza: poiché un albero sembra inizialmente del tutto di­verso da me, e indipendente da me, questo albero è non-Io. Nell’idea­lismo assoluto si fa proprio il principio idealista fondamentale che ogni realtà è una rappresentazione dell’Io: a partire da Berkeley vale il principio che esse est percepi, cioè che intanto esiste l’albero in quanto lo percepisco, e fuori dalla mia percezione nulla posso dire: non so neppure se esiste l’albero; so solo che l’albero, in quanto per­cepito, esiste come posto dall’io e consiste in una percezione dell’io. Di fatto l’io è l’unica realtà di cui ho certezza, e se il valore è la rela­zione tra io e non-io, allora il valore dell’albero, del non-io, equivale alla sua riduzione all’io. La realtà apparente non esiste separatamente dall’io, ma è un significato, cioè è «il modo del semplice esistere di fatto di un oggetto o potenza per l’Io».[15] Il problema fondamentale di ogni pensiero idealista è sempre ricondurre all’io il mondo esteriore, apparentemente separato nella sua apparenza immediata: questa se­parazione è contestata attraverso una riflessione di carattere gnoseo­logico che, al di là dell’atteggiamento irriflessivo, scopre nell’altro una percezione, una posizione dell’io.

Se soggetto e oggetto sono radicalmente separati, senza alcun punto di contatto, «non vi è più alcun modo di intendere come quella lor congiunzione, in ciò consiste il conoscere, sia possibile»,[16] scrive Evola in L’individuo e il divenire del mondo, facendo propria una cri­tica degli idealisti al realismo dualista: l’oggetto della conoscenza (l’albero quale io lo percepisco) non può essere nettamente e radical­mente separato dal soggetto che lo percepisce e lo conosce, ovvero se lo rappresenta; io posso parlare solo di questa rappresentazione: «Senza un assenso, senza un atto, non v’è oggetto per l’Io e nell’Io».[17] Il realismo non può contrapporsi alla teoria idealista della conoscen­za perché esso «è confutato dal suo stesso porsi come verità, poiché se è vero che l’idea è estrinseca al reale, il realismo, che in ogni caso non può essere che un’idea o sistema di idee, non può avere un carat­tere di verità».[18]

Nessuna realtà è comprensibile senza il riferimento all’io. Tutta­via, per Evola, non è necessario pensare l’io soltanto in riferimento a un’altra realtà; l’io, che nella conoscenza è sempre alle prese con un altro, con un non-io, può essere anche considerato in se stesso, nella sua realtà assoluta: «È possibile staccare questo principio di autoriferimento dai par­ticolari contenuti delle esperienze per ripiegarlo in un certo modo su se stesso. Allora si ha Io uguale Io, cioè una nuda espe­rienza, un possesso, qualcosa di semplice ed ineffabile».[19]

Qualunque oggetto è sempre riconducibile a un atto dell’io, che lo determina. Dunque, se la realtà è una determinazione dell’io, eviden­temente questa realtà stessa richiede un incondizionato che la deter­mini: «Il fatto stesso che si parla di un oggetto, anzi di più oggetti, e che da un oggetto si passa ad un altro, pone la trascendenza del­l’Io all’attualità».[20] L’io, dunque, non solo pone il non-io, determinandolo, ma è tra­scendente rispetto all’intera realtà che determina, è cioè quella nuda esperienza di se stesso, di Io uguale Io, che «media tutto e, essa, da nulla è mediata».[21] Questa realtà dell’io è il presupposto di qualunque esperienza.

Evidentemente questo io di cui si parla non è un’entità separata da noi, si tratta anzi «del mio Io, di quella assoluta presenza che sono nella profondi­tà del mio essere individuale. Ora, che un tale Io sia qualcosa di immoltiplicabile, qualcosa che è “solo e senza un secondo”, è troppo evidente. Parlare di altri Io da questo livello è infatti una contraddizione in termini».[22] Inoltre, con un tratto che mi sembra originale rispetto all’ideali­smo, Evola afferma che l’io non si identifica con il pensiero:

Se non vi è pensato prima del pensare, non vi è Io come pen­sante prima del suo effettivo pensare: come tale l’Io nasce sola­mente con la nascita del pensato. Ma da questa soggettività creantesi con l’oggetto ed una con l’oggetto, si distingue il princi­pio individuale come potenza del relativo processo o atto. In se stesso informe ed incondizionato, esso è il principio per cui la categoria è categoria, è cioè la possibilità donde il principio at­tuale, epperò la libertà demiurgica interna al determinato porre, procedono.[23]

Se comprendo bene, Evola vuol dire: è ovvio che vi sia un io pen­sante solo nel momento in cui pensa; però è altrettanto ovvio che, se pensa, aveva il potere o la potenza di farlo; dunque l’attualità del pensare, con tutte le categorie che implica, emerge da una potenzialità, una possibilità, una libertà, che implicano un principio potente e libero, ma anteriore all’attualità del pensare e del porre o determinare il non-io. Vale a dire, se posso esprimermi con una terminologia non evoliana, che l’esse est percepi vale per l’oggetto pensato, per il non io percepito, ma non vale per l’io che, in sé, percepisce, ma non consiste solo in percezione; è un io che «si pone», ma potrebbe anche non farlo, ed anzi si caratterizza come indifferente al porsi e al non porsi. Infatti, se noi negassimo questa libertà o indifferenza, risulterebbe che l’io si pone, determina, attua l’intero processo della manifestazione, per via di una necessità, di un obbligo che lo domina: in tal senso finirebbe col perdere le sue caratteristiche di Io, di soggetto ponente e determinante, e ne deriverebbe una serie di contraddizioni a catena, tutte in contrasto col principio fondamentale del mondo come rappresentazione. L’io deve essere caratterizzato dalla libertà, per Evola, perché altrimenti non si potrebbe più ricondur-re l’oggetto a una determinazione del soggetto e, cosa più grave, non si potrebbe distinguere «fra l’Io come infinità-libertà e l’Io come soggetto attuale pensante, cioè fra l’Io come indifferenza al porre e al non porre, e l’Io che vive nella determinazione come funzione data».[24] Sembra di capire che per l’idealismo l’io empirico e l’io assoluto debbono coincidere, altrimenti l’intero castello gnoseologico cade; ora, di primo acchito l’io empirico non è assoluto, ma anzi si presenta come determinato, mortale, separato dal non-io: se questa condizione è frutto di un atto libero dell’io assoluto, allora è possibile salvare il presupposto idealista dell’identità tra io assoluto e io empirico; se invece è il prodotto di un processo necessario, allora l’io assoluto risulta una scatola vuota, un mero concetto, una conclusione assurda del principio – peraltro evidente e indiscutibile – dell’esse est percepi. Da qui l’intrinseca necessità teoretica di affermare un io assoluto, libero, potente, capace di porre o non porre.

Questo io come libertà assoluta non può essere un oggetto di co­noscenza, perché conoscerlo vorrebbe dire assoggettarlo a una cate­goria del pensiero. Si dovrà dunque limitarsi a postularlo come mi­stero? Evola afferma che si può «possederlo, esserlo, non ucciderlo in un concetto, ma realizzar­lo, coglierlo attualmente cogliendosi in quel centro, in quella as­soluta immanenza che già si è e che ad ogni mediazione si sup­pone».[25] L’io assoluto, inteso come assoluta libertà, è certamente al di là del pensiero umano, ma è anche immanente all’uomo: «Debbo sentirmi superiore a quel pensiero, che è un cerebrale contorno filosofico – ma non basta: debbo anche, ed eminente­mente, sentirmi superiore, trascendente, a quel pensiero che è il processo in atto della realtà stessa».[26]

  1. L’io e la coscienza empirica

Il fatto che il mio essere personale e concreto sia questo io assolu­to, come assoluta libertà, è un dato che non risulta all’esperienza quo­tidiana, non è presente immediatamente alla mia coscienza. Questa infatti mi dice che esiste un mondo diverso da me, fornendomi un’in­terpretazione della realtà in contraddizione col fatto che l’io si è po­sto e ha posto il mondo. Sembrerebbe un circolo vizioso: esiste la de­terminazione; la possibilità della determinazione implica il soggetto assoluto che la pone; l’essenza stessa di questo soggetto assoluto esclude che sia vero il modo in cui la determinazione appare alla co­scienza empirica, come dualismo tra io e non-io; questa coscienza empirica, a sua volta, non riesce a identificarsi come soggetto assolu­to. Questo circolo, secondo Evola, dipende dall’aver assunto come momento originario proprio la coscienza empirica, limitata, che di per sé non è affatto originaria: è l’io assoluto, che, ponendosi con un atto libero, determina l’esistenza di elementi che appaiono contraddittori alla coscienza empirica. Questo non era però necessario, perché l’atto dell’io assoluto è frutto di libertà. Quando l’Io si pone, se si pone, determina la coesistenza di essere e non essere, valore e non valore. Orbene, l’antitesi tra coscienza empirica e non io non è un fatto, non è la struttura metafisica della realtà, ma è un valore: cioè la relazione dell’assoluta libertà con se stessa, quasi come una dialettica interna all’Io che diviene reale solo se e quando l’io si pone. L’assoluto è caratterizzato da un incondizionato arbitrio, che si estende fino all’indifferenza – se si pone – al porsi come affermazione o come negazione.[27]

Questa elaborazione filosofica di uno dei più complessi problemi dell’idealismo (il fatto che l’io empirico non si riconosca, per così dire, come assoluto) è certamente geniale dal punto di vista dialetti­co, anche se, a mio parere, non risolve il problema. Si limita ad ac­cettarlo, giustificando una situazione di fatto: c’è contraddizione per­ché deve esserci. Il principio idealista del mondo come rappresenta­zione dell’io viene a convivere con il principio realista, secondo cui il non-io non è illusorio. Da un lato l’arbitrio dell’io giustifica l’esisten­za del non-io inteso come libero porsi come negazione dell’io empiri­co; dall’altro lato questa indifferenza dell’io, questa sua libertà sono ricondotte a una logica: fermo restando che l’io poteva non porsi (af­fermazione in verità ipotetica) sta di fatto che, quando si pone, si pone come affermazione o come negazione, cioè all’interno delle sole categorie del pensiero (affermazione e negazione) concepibili per la limitata mente umana. Infatti le categorie affermazione e nega­zione non possono essere rintracciate con lo studio della realtà feno­menica, che non è realtà ma valore, né da un’analisi dell’io assoluto, che abbiamo visto consistere in arbitrio non condizionato da alcuna necessità intrinseca. Poiché il mondo come valore è il modo del sem­plice esistere di fatto di un oggetto per l’io, non possiamo sostenere che questo modo sia qualcosa di più di una contingenza: l’oggetto poteva esistere in altro modo, essere un altro valore per l’io. Detto in altri termini, la tesi che l’io, se si pone, si pone come affermazione o come negazione è sostenibile solo all’interno della mente umana, dove tertium non datur, ma non possiamo sapere se anche per l’Io assoluto valga questa logica. Perché dovremmo sostenere che nell’io assoluto non esista una terza possibilità? Certo, noi non la immaginiamo, ma escluderla significa affermare surrettiziamente che l’io assoluto, libero quanto si vuole, è necessitato ad esplicare in modo razionale la sua libertà. In tal caso, tale io sarebbe dunque Ragione.

In realtà Evola non accetta l’identificazione tra Io e Ragione. Cri­tica infatti l’idealismo trascendentale che, proprio con questa equa­zione, ha reintrodotto nell’idealismo la trascendenza e dunque una vi­sione dualistica. Nell’idealismo, il dualismo non ha spazio: se ciò che viene posto dall’io è assolutamente distinto dall’io stesso, automatica­mente il mondo empirico diventa un’illusione. Dice infatti Evola, ri­prendendo un argomento del tantrismo contro il monismo indiano: se l’io assoluto è l’unica realtà, allora tutto ciò che è distinto dall’io non è realtà ma illusione, e l’illusorio non può affermare nulla che a sua volta non sia illusorio; se invece diciamo che il non io non è distinto dall’io, allora abbiamo un circolo vizioso: mondo empirico e Io fanno un tutt’uno, e noi, che siamo dentro il mondo empirico, rischiamo di non uscirne mai. Perché si genera questo impasse? Perché l’Io è stato inteso come un concetto, come Ragione. Di conseguenza si è giunti a un’identificazione razionale tra io empirico e io assoluto che risulta una truffa, perché non riusciamo ad avere l’esperienza di questa iden­tità. Allora l’io vero non può essere un concettuale soggetto trascen­dentale, caratteristico dell’idealismo trascendentale che, in qualche modo, recupera il concetto di trascendenza, né può essere un io em­pirico che, preso nelle sue condizioni attuali, viene considerato iden­tico all’io assoluto, senza che cambi minimamente la sua precarietà esistenziale, la sua limitatezza. Occorre pensare invece a un Io che fuoriesca dalla sfera astratta del puro pensiero: «La sapienza popolare, che oppone lo spirito al mondo, che rico­nosce la finitezza dell’individuo e pure all’interno di esso, in esso come libertà, vede rilucere un principio eternamente irriducibile a qualsiasi natura, è conforme a ciò che dalla Teoria dell’indivi­duo assoluto è posto come elemento originario del mondo del valore. Questo irrazionale deve essere».[28]

Insomma, l’io, ovvero l’Individuo Assoluto, in termini evoliani, è indifferente al porsi o al non porsi, vale a dire che non consiste in un processo intrinsecamente determinato; se si pone, può farlo come af­fermazione o come negazione, come io e come non io; in entrambi i casi è immanente e presente come elemento irriducibile e libero, per­ché così ha voluto, e questo appare inevitabilmente alla coscienza empirica come una contraddizione, come un irrazionale che deve es­sere, perché la coscienza empirica si muove all’interno del porsi del­l’io e alle prese con il valore, cioè con il modo in cui arbitrariamente l’io ha deciso di porsi.

Ciò significa, per Evola, che nel porsi dell’io sono rintracciabili due vie, due opzioni entrambe possibili: la «via dell’altro» e la «via dell’Individuo Assoluto». La «via dell’altro» è la possibilità di porre l’altro da sé, un non-io che consiste ontologicamente in brama, desi­derio di possedere l’io: è ciò che produce il divenire del mondo, come un movimento in cui il non-io cerca di colmare la sua privazio­ne, perché l’io ha posto l’essere nell’altro da sé, restandogli sì imma­nente, ma senza mai possedersi del tutto, come in una sorta di estra­niazione. Nella «via dell’Individuo Assoluto», invece l’Io consiste in se stesso, e ogni distinzione dall’io è apparente.

Entrambe le opzioni sono compossibili per l’io, perciò abbiamo che, se l’io si pone, allora «x» è posto (dove «x» è una cosa qualun­que); in quanto posizione dell’io, che è l’individuo assoluto, «x» ha come realtà la sua non-realtà,[29] perché solo l’io è reale; in quanto po­sizione secondo la via dell’altro, «x» non è mera illusione, ma è un’e­steriorità all’io che «brama» il possesso di quell’io che, appunto, essa non è. Dal punto di vista empirico questo sembra contraddittorio, ma dal punto di vista dell’io assoluto non lo è: l’io assoluto non si pone in un punto privilegiato della manifestazione ma è la sola realtà in cui si colloca ogni singolo momento del suo porsi in un modo o nell’altro. L’io possiede tutto, senza essere da nulla posseduto, e ciascun momento della manifestazione, del porsi, è «l’espressione di una potenza, che ha in sé medesima, in rapporto di dominio, la funzione del limite».[30]

Come dicevo prima, la costruzione teorica di Evola è geniale, ma in questa singolare forma di idealismo che vuol convivere con la contraddizione esistono parecchi problemi. Perché l’io, se si pone, può farlo solo attraverso due «vie»? Perché non potrebbe, ad esem­pio, porre l’altro in quanto tale? Si dirà che questa è la soluzione cri­stiana della creazione ex nihilo, ma qui non voglio contrapporre ad Evola un pensiero che gli è estrinseco, faccio solo un esempio per re­stare all’interno del suo pensiero, ragionando con i suoi presupposti: se l’io è libero, con quale argomentazione escludiamo che egli possa porre l’altro come estraneo a sé? Perché questo è inconcepibile per noi? Certo che è inconcepibile: si è vista l’argomentazione: se l’io è l’unica realtà, ciò che non è io non è reale. Questo vuol dire che la ra­zionalità di questa argomentazione viene proiettata sull’io stesso che risulta fatalmente un ente razionale, cosa che Evola vuole escludere. Se la escludiamo, allora non possiamo escludere da questa nozione di io la possibilità di una creazione ex nihilo o anche di chissà quali al­tre forme di posizione possibili per un io che trascende la ragione. Dunque l’individuazione di due strade, e solo due, è una nostra rico­struzione speculativa a posteriori, che si muove entro l’ambito della ragione umana. Non illuda il fatto che si evidenzia una contraddizio­ne e che la si accetta: questo non significa affatto superare il limite costitutivo della razionalità, bensì accettarlo, perché è il ragionamen­to stesso che evidenzia un risultato contraddittorio, accettato come tale, in quanto il ragionamento stesso esclude altre vie teoretiche non razionali. Nel dichiarare compossibili le due vie (affermando al tem­po stesso che non ve ne sono altre), Evola in qualche modo evita il principio di non contraddizione, per poi ricadervi dentro, e il suo errore teoretico è proprio questo: il principio di contraddizione nell’io vale o non vale? Se non vale, allora le vie sono compossibili, ma possono essere più di due, e tutta la teoria evoliana perde il carattere di necessità diventando un’ipotesi. Se vale, non possono essere compossibili, e si ricade nel concetto razionale dell’io trascendentale. Non si può superare l’ambito del razionale e poi giustificare razionalmente ciò che si colloca oltre tale ambito.

In ogni caso, nei confronti dell’idealismo dominante in Italia in quegli anni Evola sviluppa una posizione eterodossa che, pur restan­do emarginata, è di grande interesse storico: non si tratta solo di muovere una critica alla dialettica fumosa degli idealisti, ma anche di far valere alcune istanze feconde, come la necessità di concepire l’io anche in termini di realtà e potere, o l’interesse a salvare in qualche maniera la corposità delle cose, a non dissolverle nel vago concetto del non-io. Il limite sta nel fatto che Evola tenta di farlo restando al­l’interno dell’idealismo stesso, sviluppando una posizione che è certa­mente originale, ma anche precaria, proprio negli anni in cui la filo­sofia europea attaccava a fondo il presupposto stesso del mondo come rappresentazione e, attraverso la fenomenologia, si avviava verso un altro modo di pensare.

  1. Il concetto di potenza

L’Io è dunque libero e potente. Per Evola due sono i possibili rap­porti tra io e non io: un rapporto di spontaneità, e un rapporto di vo­lontà. Nel quadro della spontaneità, ciò che è possibile si identifica con ciò che effettivamente accade: la manifestazione è infatti un pro­cesso spontaneo, in cui si verifica solo ciò che può accadere, secondo una intrinseca necessità. Invece, nel quadro della volontà è solo gra­zie a una decisione libera che una cosa possibile diventa reale: avreb­be potuto non diventarlo, e dunque questo tipo di rapporto implica un momento di autarchia e di dominio, un potere in cui risiede la ragion d’essere di un certo atto. Nella spontaneità non esiste una vera e propria libertà, ma solo lo sviluppo naturale di qualcosa che non può non aver luogo. Nella volontà, invece, l’io può ciò che vuole, in modo incondizionato.[31]

Questa potenza non esiste nel mondo della realtà determinata o empirica: concettualmente io posso dire che il mondo è una mia rap­presentazione, ma come posso affermare che è frutto della mia vo­lontà, della mia potenza e della mia libertà? Come si può prendere atto di questo e continuare ad affermare l’identità di io e non io, di io empirico e io assoluto? Tenendo presente questo problema, Evola scrive: «Una cosa reale è semplicemente una cosa su cui io, come volontà, non posso».[32] Tuttavia, nonostante questo mio non-potere, tale cosa non cessa di essere una mia rappresentazione.

Volendo ancora restare ancorato ai presupposti dell’idealismo, Evola afferma: «Dire che una cosa non è causata da me non è lo stes­so che dire che essa è causata da un altro».[33] Se io non mi riconosco come causa incondizionata di una mia rappresentazione, ciò significa che una parte della mia attività cade sotto il segno della spontaneità e l’io soffre di una sorta di privazione: in questa privazione, in questo atto imperfetto consiste l’oggetto. Naturalmente, questa imperfezione è una conseguenza del modo in cui si è posto l’io: la necessaria con­seguenza dell’assurgere dell’io «a Signore del Sì e del No, di là dal mondo della spontaneità»,[34] una fase transitoria all’interno di un pro­cesso di arricchimento. Torna ancora una concezione evolutiva: l’io si innalza dalla spontaneità alla libertà, in un processo di perfeziona­mento, che si compirà al termine della dialettica avviata dall’io col suo porsi. Certo è che si tratta di un’evoluzione sui generis: l’io è li­bero fin dall’origine, dato che può porsi o non porsi, e dunque l’innal­zamento dalla spontaneità alla libertà non riguarda lui: non si può di­ventare liberi per via di un processo necessitato. Può solo riguardare l’io empiri-co, a partire dalla sua condizione attuale di privazione: questo però significa assumere una posizione ambigua riguardo all’identità tra io empirico e io assoluto, che da un lato viene riaffermata in via di principio, dall’altro viene incrinata da progressive differenziazioni.

  1. L’antropologia idealista

Sul piano antropologico la nozione chiave continua a essere quel­la di uno sviluppo progressivo o evolutivo, attraverso cui l’io empiri­co colma la privazione che gli fa apparire il non-io come altro da sé. Bisogna però capire che cosa si deve intendere quando si parla di io empirico, cioè chi è veramente il soggetto che deve colmare la priva­zione. Per Evola non si tratta dell’io che comunemente intendiamo come il centro attuale della nostra persona, dominato da passioni e sentimenti, avvezzo a subire la vita, anziché dominarla. Accanto a questo io superficiale esiste un io profondo, lucido, autenticamente reale, che costituisce il nucleo fondante della persona.

La coscienza che caratterizza la vita abituale è limitata sia nella sua capacità di rendersi conto sia nella sua capacità di agire; la persona vive così su­bendo le sue azioni e i suoi processi, senza attingere all’io profondo, alla coscienza profonda che invece domina l’azione senza esserne as­sorbita. Studiando le tradizioni orientali, o fenomeni come l’ipno-ti­smo, Evola coglie un aspetto che nei decenni successivi si sarebbe imposto all’attenzione di molti studiosi, e che avrebbe dato luogo a molte correnti culturali, serie o meno serie: l’idea che esiste una zona profonda della personalità che resta ordinariamente inattingibile. Il carattere condizionato del comportamento quotidiano cosiddetto nor­male viene da Evola utilizzato in chiave idealista, come spiegazione dell’incapacità dell’io empirico di riconoscersi come assoluto. Questo lo porta ad accentuare la distanza tra l’io profondo e l’io di superficie, fino a dire che la dimensione della profondità non appartiene al mon­do fenomenico, bensì al piano da cui è retto il fenomeno, anche se re­sta fermo il principio idealista che questo piano rappresenta l’imma­nenza nel mondo empirico e nella persona umana dell’io assoluto. Può così dire che, qualora si raggiungesse un tale piano, «nulla di ciò che è esterno saprebbe resisterci»,[35] non trattandosi appunto di una realtà separata.

Ora, se esiste questa condizione dell’io empirico, che si è in un certo senso estraniato da se stesso, dal livello più profondo della co­scienza, risulta che l’idealismo non può limitarsi ad affermare teoreti­camente l’identità tra l’io empirico e l’io assoluto o profondo, perché questa affermazio-ne non abolisce la distanza che di fatto intercorre tra le due dimensioni. Questa distanza va colmata, la privazione va superata, ma questo compito non può realizzarlo il ragionamento: semplicemente, bisogna partire dalla condizione umana di fatto e realizzare una serie di purificazioni, di depurazioni che ricongiunga­no la persona alla propria profondità. Si deve passare da un ideali­smo teorico e speculativo a un idealismo pratico o «magico», come lo chiama Evola, consistente in una tecnica di trasformazione. Gli elementi base di questa tecnica sono desunti dal pensiero orientale, e più in generale da varie tradizioni iniziatiche i cui esercizi avevano esattamente lo scopo di superare la condizione umana comune. Que­sto chiarisce molte ragioni dell’interesse di Evola per le varie forme dell’esoterismo che, decontestualizzate e inserite nel quadro della sua speculazione, possono permettergli di costruire la sezione operativa che manca all’idealismo speculativo: un idealismo che, da questo punto di vista, non può che apparirgli come «mera» filosofia.

Questo passaggio alla prassi comporta una difficoltà teorica. In parole povere, oggi esistono tante persone e ciascuna di esse è un io empirico. So che l’esistenza dell’altro uomo è comunque una mia rap­presentazione, ma lasciamo perdere questo dettaglio che al momento è ininfluente. Voglio dire che l’esperienza comune dell’uomo è quella dell’esistenza di un mondo altro, fatto di alberi, case e altri uomini, ad esempio gli studenti a cui Hegel insegnava la filosofia idealista ot­tenendo in cambio uno stipendio mensile. Ora, l’io empirico è limita­to e si concepisce nella molteplicità, invece l’io assoluto è uno solo e si concepisce come unità, unicità, esser solo e senza un secondo. Se la tecnica che Evola propone per superare i limiti contingenti dell’io empirico ha un risultato positivo, allora questo io empirico si identi­fica con il suo livello profondo, si riconosce come io assoluto, e si ri­trova in quel punto in cui, come si diceva, niente potrebbe resistergli. Di fronte a ciò la domanda è banale e persino oltraggiosa: quanti io empirici possono raggiungere questo livello? La risposta è ovvia: tanti quanti sono gli io assoluti, cioè uno solo, perché solo l’io assolu­to può riconoscersi in se stesso. Per quanto possa sembrarci assurdo, ora che la cultura europea è uscita dall’idealismo, la prospettiva di Evola si trova davanti lo spettro del solipsismo, con cui ogni forma di idealismo deve fare i conti. Con coerenza, Evola lo accetta, lo af­ferma e lo teorizza. Che l’io empirico colmi la sua privazione, signi­fica soltanto che l’io assoluto riassorbe in sé, annullandolo, tutto ciò che gli è contingentemente esteriore.

Su questa posizione estrema il discorso teorico si conclude, nul­l’altro può essere aggiunto, e ciò che resta è solo una prassi, un com­pito da realizzare. Con coerenza, Evola abbandona l’idealismo specu­lativo, rifiuta di occuparsi di cose che per lui, ormai, sono solo mera­mente filosofiche, e volta pagina. Nel 1927 fonda una rivista interes­sata all’azio-ne, ai metodi di realizzazione e di trasformazione dell’io, che costituiscono un’arte o una scienze definite «magiche».

  1. Gli sviluppi dell’idealismo assoluto

 Ur è il nome della rivista fondata da Evola nel 1927 per inda­gare sui metodi di autorealizzazione attestati nelle varie tradizioni esoteriche orientali e occidentali. L’esperienza di questa rivista, e del gruppo che si raccoglie intorno ad essa, è complessa e si presta a molte letture. La rivista si occupa di un apparato vasto di rituali esotici, di complessi simbolismi, spesso di origine libresca, che viene posto in blocco sotto il segno della «tradizione», intendendo con questo termine soltanto la tradizione iniziatica, cioè la trasmissione di metodi ope­rativi di trasformazione della persona, attestati in culture diverse da quella occidentale moderna. È chiaro che queste metodologie hanno un riferimento metafisico, giacché viene detto che «ad una metafisica fa da controparte una tecnica»,[36] però mentre storicamente ogni tecnica iniziatica si muove dentro la propria cultura (ad esempio l’ascesi buddhista dentro la tradizione buddhista), qui tecniche e rituali sono decontestualizzati e si ritiene che siano applicabili anche fuori dal loro contesto naturale; l’unico requisito richiesto è quello di una particolare qualificazione personale, trattandosi di percorsi iniziatici non accessibili a chiunque. Pertanto, la tecnica non fa da controparte alla metafisica tradizionale, cioè alla sua effettiva corni­ce culturale, bensì alla metafisica idealista, soprattutto nella variante teorizzata dallo stesso Evola.

La cosa si presenta in netta evidenza in varie occasioni. Per esem­pio, nel primo fascicolo della rivista Evola cerca di delineare la natu­ra della conoscenza iniziatica (il vizio della speculazione è duro da togliere), e scrive che, dal punto di vista iniziatico non è possibile co­noscere una cosa qualunque «finché la coscienza non possa trasfor­marvisi».[37] Vi è dunque un’identificazione di conoscenza ed espe­rienza, e la validità della conoscenza è data dal «grado di identifica­zione attiva, cioè dal grado secondo cui l’Io è implicato ed unificato nella sua esperienza, e secondo cui l’oggetto di essa gli è trasparente nei termini di significato».[38] Si tratta della stessa terminologia della fase speculativa, e il concetto espresso da Evola, pur facendo riferimento a una nozione comune a molte tradizioni, compreso il misticismo e lo sciamanismo, non si comprende pienamente se non si tiene presente che il termine significato ha la stessa accezione definita nelle prime pagine della Teoria dell’individuo assoluto: nell’identificazione attiva, cioè in questa conoscenza che sembra sciamanica e in cui si ha l’identificazione tra chi conosce e la cosa conosciuta, si comprende il modo in cui un oggetto esiste di fatto per l’io: l’oggetto della conoscenza è trasparente nei termini di un modo di esistere per l’io. Nulla è più distante dal pensiero sciamanico e affini. Anche in questa fase «magica» (aggettivo che identifica l’idealismo passato alla realizzazione pratica) la conoscenza è una «azione che parte dall’io e si afferma nell’ordine delle cause reali»:[39] ciò che alla coscienza empirica appare come altro e separato, si risolve invece in un rapporto di potenza, in cui un io sufficientemente profondo riduce a sé l’alterità.

Finché l’altro rimane appunto altro per l’io, non si ha conoscenza vera, perché il rapporto di alterità attesta una privazione, una limita­zione che affetterebbe l’io stesso. In Ur il mondo viene concepito coerentemente come potenza o rapporti di potenze, ed è significativo che nel ripubblicare la rivista nei tre volumi di Introduzione alla ma­gia quale scienza dell’Io, Evola prenda le distanze da queste sue con­cezioni, come farà con ogni affermazione di sapore idealista conte­nuta nei suoi testi giovanili.[40] Chi crede di trovare negli articoli di Ur la descrizione di certe culture tradizionali, resterà deluso, perché trova solo materiale tratto da queste culture, a volte cono­sciuto attraverso fonti secondarie, e interpretato secondo prospet­tive ad esse estranee: ciò che oggi considereremmo un insopportabile (ma molto idealista) eurocentrismo.

Comunque sia, a dispetto del fatto che non esistono tradizioni ex­tra-occidentali che considerano l’iniziazione una scienza dell’io, la ri­vista non contiene solo ciarpame. Certi testi vengono comunque ri­scoperti e si affrontano questioni essenziali come la libertà, il tempo, la preveggenza, problemi che implicano una valu­tazione accurata del materiale eterogeneo che si andava raccoglien­do. Vi è anche da considerare che in questo contesto si colloca la scoperta delle opere di Guénon, che aveva elaborato una nozione di tradizione più complessa di quella evoliana degli Anni Venti.

Le prime tracce di una differenza rispetto alle idee del periodo idealista si vedono nel modo in cui viene affrontato il problema del­l’oltretomba, e rivelano che il primo caposaldo dell’idealismo a cade­re è la valutazione della persona umana. Nel periodo idealista si è in un’ottica solipsista e immortale di diritto risultava solo l’Individuo Assoluto, l’unico che fosse realmente esistente. Peraltro il suo pro­blema non era certo sottrarsi alla morte, bensì ridurre tutta la realtà all’io. Nella fase iniziatica della rivista Ur, invece, la prospettiva è diversa. Ciò che comunemente viene chiamato io, presuppone una realtà più profonda esistente in noi: non si tratta più dell’immanenza dell’individuo assoluto, ma della nozione del Sé, il principio della persona distinto dalla mutevolezza della coscienza comune, eppure ad essa intimamente legato. È una realtà profonda che la scienza ini­ziatica mira a ridestare, a possedere come centro effettivo della per­sona. Così, in relazione al tema dell’immortalità, questa non è più privilegio dell’unico individuo assoluto, ma è una condizione che spetta a chiunque la conquisti, reintegrando l’io comune con il Sé profondo. Detto in parole povere, è possibile che più individui siano immortali: c’è dunque un contrasto netto tra le posizioni espresse nei Saggi sull’idealismo magico [«La costruzione dell’immortalità»[41]] e quelle espresse nell’articolo di Ur intitolato «Il problema dell’im­mortalità».[42]

Nel 1927 Evola attraversa una fase di passaggio in cui convivono vecchie e nuove idee, producendo spesso un’oscillazione. Per esem­pio un articolo di Ur, Sulla dottrina generale dei Mantra, riprende concetti già espressi nel 1925, La purità come valore metafisico. In questo saggio del ’25, parlando della «purificazione della paro­la», aveva citato la nozione tradizionale di Çabdabrahman, suprema potenza creatrice del Verbo, del Principio, nella quale la parola e il significato restano unite: la manifestazione è espressione del princi­pio, intesa come autorivelazione. All’interno della manifestazione c’è dualità, ma nell’espressione in quanto atto del Principio vi è assoluta unità; c’è dualità (idealisticamente c’è io e non io) perché il Verbo creatore si sdoppia (in termini idealisti, si pone secondo le due vie: dell’altro e dell’indi­viduo assoluto):[43] ciò che, per il Principio, «era un significato» (torna questa parola chiave) «si scioglie da lui e si fa oggettivo in una ex-si­stenza».

Nel saggio sui mantra, pubblicato su Ur, torna ancora il concet­to di Çabdabrahman, ancora inteso come espressione primordiale, come manifestazione che è autorivelazione e contiene in sé lo sdop­piamento. Però, mentre nel saggio sulla «Purità» si formulava l’ideale di per­venire, attraverso la comprensione dei mantra, alla realizzazione di «uno stato di identità con i principi individuanti le cose»,[44] nel saggio di Ur la questione si presenta in modo più complesso: il monismo sembra attenuarsi e si affaccia una via diversa sia dal duali­smo sia dal monismo, attraverso la nozione indiana di non-dualità. La manifestazione che dà vita al mondo è assimilata a un suono, a una parola pronunciata dal Principio inteso come Verbo, in particola­re alla sillaba sacra om: il suono di questa sillaba primordiale (il Brahman inteso come Verbo) è di un’assoluta semplicità e lo si ritro­va nella profondità dell’uomo: «Lo stesso suono dei suoni, om, essen­do dappertutto, si ritrova altresì nel corpo degli uomini qua-le ultima, occulta profondità della forza che li regge, li ani-ma».[45] Orbene, chia­risce Evola, questo suono deve essere ridestato e diventare il centro effettivo della persona, senza che ciò comporti una perdita dell’iden­tità personale.[46]

È un’apertura importante al recupero della persona e della concre­tezza del mondo. Non è la stessa cosa definire l’altro come privazio­ne e definire una realtà come simbolo di qualcosa che sta oltre l’ap­parenza. Prima c’era l’ideale di un dominio sulle cose attraverso lo sviluppo di una potenza; ora si parla di «impadronirsi del “senso” delle cose»:[47] evidentemente una nozione diversa da quella del valore che esse hanno per l’io assoluto. La comprensione della cosa potrebbe annul­lare la distanza, non la distinzione, tra l’io e il non io. Sarebbe stato interessante uno sviluppo più articolato di questo tema, ma, in questa fase, Evola ostenta un rifiuto della speculazio­ne, un certo fastidio verso «domande che risentono dell’influenza della filosofia».[48]

Gli interventi teorici, comunque, non sono del tutto assenti nella rivista. In un caso molto interessante, Evola si occupa del rapporto tra immanenza e trascendenza, giungendo a una posizione di com­promesso transitoria, ma tale da infrangere il rigido immanentismo idealista. Scrive, dunque, in un articolo intitolato appunto Immanen­za e trascendenza, che questi due termini indicano un problema che non si pone dal punto di vista iniziatico:

Sul piano cosmologico e teologico, ogni vero insegnamento ini­ziatico non può che tradursi in una dottrina della trascendenza [!], perché, nell’una o nell’altra forma, esso ammetterà sempre un principio che non è esaurito dalla creazione [!] o dalla «manife­stazione», che sta al di là da ogni forma di esistenza non solo na­turale ma anche celeste o divina. Ma sul piano pratico, con riferi­mento all’uomo e alle sue possibilità, la prospettiva, come si è detto, è doppia.[49]

Per l’uomo comune la spiritualità è trascendente, mentre l’iniziato «ha preso residenza nell’elemento centrale, metafisico, e quindi se qualcosa gli dà un’impressione di estraneità e distanza, ciò sarà proprio il mondo umano e sensibile».[50] Nell’iniziato il principio trascendente è immanente al suo stesso essere. Orbene, questa concezione è sostenibile entro la nozione di non-dualità, nozione negativa, che si limita a rifiutare l’esistenza di una separazione netta tra il mondo e la trascendenza del Principio, ma in fondo non afferma neanche un’identità di tipo immanentista o panteista. Si tratta dunque di un’apertura a vedute diverse da quelle del periodo idealista, che però sono ancora inserite in un qua­dro che non è loro proprio. La nozione di non-dualità, usata per chia­rire la posizione singolare dell’iniziato rispetto al Principio della ma­nifestazione, genera un problema che Evola non risolve: va bene che l’iniziato ha realizzato il Principio come centro del proprio essere, ma l’iniziato come tale fa o non fa parte della manifestazione? L’iniziato è il Principio, oppure è un elemento interno alla manifestazione che realizza una certa condizione in cui il Principio diventa il centro del suo essere? È ovvio che se appartiene alla manifestazione, il Princi­pio gli resta trascendente; se non appartiene alla manifestazione, la sua realtà risulta teoreticamente inconsistente.

Un’importante novità si ha nel terzo volume della rivista, pubbli­cato nel 1929, in particolare in un articolo su Aristocrazia ed ideale iniziatico, in cui si afferma una nuova concezione della persona. La nozione di aristocrazia

corrisponde al modo d’essere di una superiorità virile libera e personalizzata. Risponde all’esigenza […] che ciò che vive all’in­terno come spiritualità si testimoni altresì in una forma, suggel­landosi in un equilibrio di corpo, anima e volontà, in una tradi­zione di onore, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume – in generale in uno stile del pensare, del sentire e del reagire.[51]

Si tratta di una forma interiore che l’uomo conquista attraverso l’autocontrollo, il dominio degli impulsi ciechi ed istintivi, che carat­terizza il concetto di persona. Il tipo aristocratico è un individuo che ha modellato il suo comportamento secondo un certo ideale etico, at­tuando il quale la sua personalità individuale viene nobilitata, non annullata: si tratta del gradino iniziale del lungo processo di trasfor­mazione ascetica che conduce all’autodominio e che ha la figura del­l’iniziato nel suo vertice. Questo articolo è importante perché in qual­che modo viene colmato il vuoto che sembrava esistere tra l’iniziato e l’uomo comune: si crea una gradualità e, al tempo stesso, si aprono strumenti concettuali per la comprensione e la salvezza della realtà quotidiana, sacrificata un tempo sull’altare del monismo.

In un articolo intitolato Che cosa è la realtà metafisica, Evola fornisce vari significati di questa espressione: da un punto di vista oggettivo, realtà metafisica è ogni stato dell’essere non legato a con­dizioni spaziali e temporali; dal punto di vista soggettivo è l’esperien­za che una coscienza può realizzare nel momento in cui cessa di es­sere condizionata da spazio e tempo; infine (e fondamentale), realtà metafisica è il trascendente, l’incondizionato, ciò che resta fuori dalla natura, intesa nel senso antico di physis, che include tutta la manife­stazione, sia corporea sia psichica[52].

Queste tre definizioni risolvono, credo, il problema dell’apparte­nenza o meno dell’iniziato alla manifestazione: un conto è il princi­pio, trascendente in senso proprio e senza riserve, un altro conto è l’esperienza iniziatica delle stesse condizioni atemporali e aspaziali del principio, quan-do l’individuo, partendo dalla sua empirica quotidianità, realizza una condizione non vincolata dalle leggi in­terne alla manifestazione, una realizzazione interiore in cui spazio e tempo cessano di essere condizionamenti. In questa prospettiva l’idealismo appare lontano, e il principio di non-dualità viene chiarito meglio: ammesso un principio incondizionato trascendente tutta la manifesta­zione, si afferma che tale Incondizionato è presente anche nell’uomo, pur non identificandosi con l’uomo: la trascendenza non esclude l’im­manenza, e l’immanenza non esaurisce il principio. Evola parlerà spesso, nella sua fase più matura, di trascendenza immanente: il mondo em­pirico e il Principio restano distinti e non identificabili, ma il primo esiste per la relativa immanenza in esso di un principio incondiziona­to. Dal punto di vista storico non è una grande novità.

Evola è comunque consapevole della trasformazione delle sue idee, e opera delle vere e proprie correzioni nei suoi testi. Per esem­pio c’è un articolo pubblicato su Ur, «Sul sacro nella tradizione ro­mana», in cui viene attribuita al mondo romano una concezione im­personale e immanentista del divino.[53] Lo stesso articolo viene ripub­blicato nel 1934, nella sua pagina Diorama filosofico, sul quotidia­no Regime fascista: Evola elimina accuratamente ogni riferimento a concezioni immanentiste.[54]

L’esistenza di un processo rapido di maturazione e revisione di idee tra il 1927 e il 1929 è confermata a posteriori dallo stesso Evola nel Cammino del Cinabro, commentando le nuove prospettive che la fase idealista apriva riguardo al problema della morte e della soprav­vivenza:

Ci si potrebbe chiedere dove andasse a finire l’Individuo Asso­luto, dato che ora si parlava di un io mortale condizionato al cor­po. La contraddizione è solo apparente […]. La veduta iniziatica si accordava benissimo con la teoria delle due opposte vie indi­cata nella mia Teoria […]. Il progresso rispetto all’esposizione astratta, filosofica, riguardava il riferimento a tradizioni concrete e a compiti operativi.[55]

Ho già detto che non concordo con questa ricostruzione che vede nell’idealismo una controparte teorica della prassi iniziatica, e mi ser­vo della citazione precedente appunto come conferma di un legame tra le due fasi, e al tempo stesso di un progresso dell’una sull’altra, che conduce a problemi di compatibilità tra i vari momenti della spe­culazione evoliana. In effetti mi pare che l’Individuo Assoluto vada appunto finire nel dimenticatoio proprio con il crollo del solipsismo. È comunque interessante continuare a leggere il brano del Cinabro, perché Evola afferma subito dopo che i suoi interessi si estendono, verso la fine dell’esperienza di Ur a «nuove linee di pensiero», tra cui quella di Guénon, la cui lettura «mi aiutò a centrare su un piano più adeguato l’intero mondo delle mie idee».[56] Scrive che di fronte al mondo della tradizione (quale Guénon lo definisce) «il mondo mo­derno appariva come una civiltà anomala e regressiva»:[57] quello stes­so mondo moderno che, in pieno idealismo (appena due o tre anni prima) gli appariva come il fiore di una bimillenaria civiltà. La tradi­zione, quale la definisce Guénon, «fu appunto il tema basilare che andò a completare il sistema delle mie idee».[58] Per dichiarazione del­lo stesso Evola, dunque, non c’è niente di collegabile alla tradizione (quale la definisce Guénon) nei suoi scritti risalenti alla fase idea­lista e a quella iniziatica precedente l’incontro con Guénon: non c’è niente di tradizionale in Evola, prima che egli scopra la nozione di tradizione, e questa scoperta avviene verso il 1928/29.

D’altronde lo stesso Evola, parlando dell’impatto della nozione guénoniana di tradizione sul suo pensiero, non cerca di sminuirla, ma scrive espressioni forti. Dice ad esempio che la concezione di Guénon, avendo un forte senso della trascendenza, fece produrre «una specie di “mutazione” (quasi nel senso della genetica) nella Teoria dell’individuo assoluto»:[59] questo conferma che il retroterra culturale della prospettiva iniziatica della rivista Ur, era appunto l’idealismo: un idealismo caratterizzato da un «individualismo esasperato».[60] La trasformazione che indica con l’immagine della «mutazione genetica» ha tratti di un vero e proprio capovolgimento.

Si consideri, ad esempio, che, per quanto possa sembrare strano al lettore di Evola che si sia fatto un’idea di questo autore partendo da opere molto mature, come Rivolta contro il mondo moderno, il gio­vane Evola, fin verso il 1928 (cioè fino ai trent’anni di età), è sostan­zialmente su posizioni progressiste ed evoluzioniste. Certamente non è il progressismo ideologico di Comte, ma è una concezione evoluti­va, tipicamente idealista, della realtà, dominata da una dialettica per cui ogni fase storica è più completa delle precedenti. Il contatto con Guénon lo conduce a un capovolgimento radicale: nel 1929 Evola palesa per la prima volta una posizione nettamente antimoderna e an­tiprogressista. La prima traccia si trova in un articolo intitolato Ame­ricanismo e bolscevismo, singolarmente contraddittorio con un altro articolo, pubblicato nello stesso anno, ma plausibilmente scritto un paio di anni prima: La palingenesi nell’ermetismo medievale (legato ai temi abitualmente affrontati da Ur).

Vediamo prima questo scritto sulla palingenesi. Il riferimento è all’alchimia, che Evola collega a una concezione della natura non moderna. In questo saggio si afferma che l’ermetismo medievale «ha una premessa inequivocabilmente immanentista».[61] La presenza del­l’immanentismo è rivelatrice, visto che il tema chiave di questi anni è proprio la ristrutturazione del sistema evoliano alla luce della tra­scendenza. È chiaro che non si tratta di uno scritto dominato dalla prospettiva dell’idealismo, perché Evola vi sostiene che la trascen­denza esiste, ma «compresa nell’immanenza»;[62] però l’idealismo non è ancora lontano, perché permane una concezione evolutiva di marca francamente idealista: «Nell’ordine della natura ogni sviluppo è con­cepito in funzione di potenze che dalla imperfezione e dalla virtualità informe, passando all’attualità, nel loro compimento si trovano ad es­sere qualcosa di più e di migliore di quanto le precedette».[63]

Nel testo su Americanismo e bolscevismo questa concezione evo­lutiva si incrina. Il testo ha un interesse dominante di carattere politi­co: non si occupa di culture tradizionali, iniziazione o altro, ma del conflitto epocale tra il modello ideologico capitalista, americano, e quello sovietico comunista. Politicamente Evola non è stato mai un pensatore originale, men che meno lo è in questo caso, e basta mettere a confronto la sua analisi dell’americanismo con quella di Gramsci per capire che il nostro pensatore non aveva concetti plausibili da spendere in politica. Per lui, Russia e America sono due branche di una stessa tenaglia che sta stritolando l’Europa, e solo apparenti sono le differenze tra comunismo e capitalismo. Il marxismo gli appare come la conclusione di un processo avviato dalla rivoluzione borghese, e di cui l’America rappresenta il massimo compimento.

Non mi interessa il valore politico di questo scritto, ma la luce che può portare riguardo all’abbandono dell’idealismo. Che il marxismo sia visto come uno sviluppo ulteriore del pensiero borghese, e sia al tempo stesso rifiutato, è già un indizio di abbandono dell’evoluzionismo idealista. Più ancora lo è il fatto che la polemica contro il marxismo (teorico e sovietico) avvenga in nome della difesa della persona che, per Evola, verrebbe annullata dalla spersonalizzazione intrinseca al comunismo.[64] Qui si pone l’at­teggiamento antiprogressista, di cui parlavo: «L’idea che il progresso possa consistere in una cultura in senso classico, cioè nel compito di dignificazione, di superamento in­terno, di sviluppo dei singoli esseri, viene derisa e respinta come il più pericoloso dei veleni dell’era borghese».[65]

Dunque si ammette ancora un progresso, ma non più nei termini di una dialettica che riguarda l’intera realtà, bensì nel senso di una promozione e di una crescita dei singoli esseri, cioè degli individui concreti, degli io empirici, per dirla in termini idealisti. Contempora­neamente c’è una netta presa di posizione contro ogni concezione progressiva del reale, di matrice idealista. Più specificamente si at­tacca la matrice hegeliana del marxismo, secondo cui «l’idea si trasforma in “materia” ed il gioco dialettico delle oppo­sizioni serve come principio per una spiegazione puramente meccanica di ciò rispetto a cui ogni “idealismo” è considerato come una mera “superstruttura”».[66]

Evola sembra capire che l’idealismo è una mera speculazione filo­sofica che, a un certo punto, Marx ha trasformato come meglio rite­neva opportuno. La dialettica idealista si è rivelata una scatola vuota, una mera costruzione concettuale, che ha fatto il suo tempo: estranea a ogni valore religioso, non in grado di cogliere la trascendenza, è stata l’asse portante di un’interpretazione della modernità che, all’at­to pratico, ha distrutto la persona e i suoi collegamenti con la sfera trascendente sia in occidente sia nel mondo comunista, concependo un’idea di progresso teorico che non ha portato a una vera promozio­ne umana. Evola sembra chiamarsene fuori perché la nozione di tra­dizione sembra in grado di fornirgli un’alternativa. Vedendo le cose dal suo punto di vista (ormai di ex-idealista) il problema sembra chiaro: quella tecnica iniziatica di perfezionamento dell’uomo, che serviva per colmare una privazione e per dare corpo al principio idealista dell’identità tra io assoluto ed io empirico, ora è vista come un’operazione che serve a riconnettere l’uomo alla tra­scendenza e al sacro (religio significa appunto riconnessione), tra­scendenza e sacro che l’intero mondo moderno ha negato, afferman­do con l’idealismo una visione desacralizzata e razionale, meccanici­sta, dialettica della realtà. Quell’idealismo, sembra dire, è il supporto teorico tanto del capitalismo quanto del marxismo, visto che il primo si basa su una concezione estranea alla vera metafisica, e il secondo si costruisce sul supporto di una dialettica che sostituisce il concetto di idea con il concetto di materia. Di conseguenza questi due aspetti di una sola medaglia, la medaglia moderna, sono da condannare in blocco.

Così abbiamo un risultato che credo incontestabile: dell’Individuo Assoluto non resta più il solipsismo; l’identità tra io assoluto e io em­pirico è stata sostituita dal concetto di trascendenza immanente, che salva l’individualità della sfera empirica, alimentandola con la relati­va immanenza in essa del divino; l’idea che la modernità idealista fosse il fiore di una bimillenaria civiltà è crollata: anzi, l’esito della civiltà occidentale è una spersonalizzazione che all’Evola del 1929 non appare più accettabile: di conseguenza che cosa rimane in piedi della costruzione idealista, se non appunto la prassi, che postulava il perfezionamento dell’individuo? Ma questa prassi è ora inquadrata in una nuova teoria, che Evola non ha espresso, e che costituisce il suo impegno prioritario negli anni Trenta. Peraltro, una prassi diversa da quella esposta in Ur, perché una più completa preparazione culturale e una miglio­re teorizzazione, permetteranno ad Evola di staccarsi dal ciarpame occultista, dalle fonti mediate da traduzioni inaffidabili, dalle defor­mazioni idealiste del mondo tradizionale e, dulcis in fundo, dalla retorica massonica.

Il cosiddetto gruppo di Ur si sfalda a seguito di una rottura interna su cui Evola non è stato mai molto esplicito. Francamente non so quali siano le ragioni contingenti della rottura, né mi interessa storio­graficamente; certo è che, confrontando il cammino di Evola e la sua situazione nel ’29 con posizioni di tipo occultista o massonico, l’ele­mento che stupisce non è che il gruppo di Ur si sia rotto, ma che ab­bia potuto resistere per ben tre anni.

  1. Modernità di Evola

L’affermazione forte di una originalità della costruzione teorica evoliana mi serviva per suggerire alla mente del lettore una tesi interpretativa che, a prima vista, può apparire un paradosso o una provocazione, ma che in nessun modo vuole esserlo: si tratta solo della conclusione abbreviata del lungo discorso che esporrò tra bre­ve. Dunque, Evola è un grande pensatore moderno. Tra l’altro, nella sua autobiografia, o autointerpretazione nel Cammino del Cinabro, si presenta come un pensatore in cammino: coglie il senso della sua opera in un movi­mento progressivo, dove le fasi intermedie sono passaggi che acqui­stano il loro vero significato solo alla luce delle fasi successive. Inizia il suo cammino intellettuale con l’essere moderno: nel suo periodo artistico è all’avanguardia con il futurismo e il dadaismo, nella fase filosofica è pienamente immerso nel pensiero idealista.

Ma si tenga presente una considerazione: Evola nasce nel 1898, e scrive le sue prin­cipali opere idealiste nel 1924, secondo la sua stessa testimonianza. Per avere un raffronto cronologico, basti pensare che Husserl nasce quarant’anni prima, nel 1859, cioè lo precede di due generazioni, e pubblica le Idee nel 1913; Heidegger nasce nel 1889 e pubblica Es­sere e tempo nel 1927; per avere un panorama del clima spirituale dominante nella generazione che precede Evola, o che gli è contem­poranea, si può ricordare che Scheler nasce nel 1874, Weber nel 1864, Cassirer nel 1874, Marcel nel 1889, Jaspers nel 1883, Bultman nel 1884, Bloch nel 1885, Marcuse nel 1898, Zubiri nello stesso anno, Fromm e Gadamer nel 1900. Ora, senza scomodare la teoria delle generazioni di Ortega y Gasset, pare evidente che nella genera­zione intellettuale precedente Evola culmina un movimento di supe­ramento dell’idealismo, fondato in qualche misura sulla fenomenolo­gia, che spesso assume toni apertamente post-moderni. Post-moderno non è una parola che goda di particolari simpatie da parte mia, tutta­via il riferimento è utile per poter affermare un fatto indubitabile: ne­gli anni 1924-1928, con i suoi due grossi tomi di filosofia idealista, Evola non solo è moderno, ma è anche attardato nella modernità. Solo negli anni Trenta arriverà a scrivere un articolo intitolato: «Supe­ramento dell’idealismo», incluso nel Diorama Filosofico. Tra l’altro: com’è noto, Diorama Filosofico è il titolo della pagina curata da Evola su Regime Fascista: quelli che storcono il naso quando sentono qualificare Evola come filosofo, dovrebbero spiegare questo titolo.

Va sottolineato che il pensiero moderno non consiste solo in certe idee, o in determinate concezioni, da contrapporre ad altre idee defi­nibili tradizionali: non si tratta di dire che la modernità è soltanto un predicato di idee quali il Progresso secondo Comte. Prima ancora di questo, il pensiero moderno è un metodo e un modo di concepire il pensiero esatto e rigoroso, ovvero la filosofia. Se dico che la filosofia è ancilla theologiae, questo non è pensiero moderno, anche se non pregiudica affatto il tipo di idee che possono essere incluse nella no­zione di ancilla theologiae; per esempio, una filosofia della libera­zione; se invece dico che la filosofia è una scienza autonoma che pone da sé i principi stessi del filosofare, questo è pensiero moderno: ma con ciò non viene detto quali sono o debbono essere questi prin­cipi, né quali sono i risultati della ricerca: potrebbe anche sfociare in una concezione razzista alla De Gobineau, con tratti presuntivamente scientifici e materialisti. Parlando di metodo, ho semplicemente pre­cisato che il ricercare come tale è un’attività che può essere svolta in molti modi, uno dei quali è moderno. Di conseguenza, l’Evola ideali­sta è moderno in due sensi: perché le tesi idealiste sono idee moderne e perché il metodo filosofico usato per formularle è la concezione moderna del filosofare. Ora, anticipando il discorso, si potrebbe dire che, nel corso del suo cammino intellettuale, Evola cambia le idee, ma non cambia il metodo. Da qui la sua costante avversione per filo­sofie critiche verso la modernità, che però ritiene «vitaliste» o irrazio­naliste.

Cerchiamo dunque di vedere che cosa conduce al superamento dell’idealismo.

Sostanzialmente succede che Evola ha concepito un sistema di pensiero rigoroso, ma diverso. Per indicare questa diversità scrive che le sue idee hanno subito una vera e propria «mutazione genetica». Se le parole non sono giochi, l’immagine della mutazione genetica significa che da un progenitore nasce un figlio appartenente a un’altra specie. Ma non necessariamente a un altro genere. Nella mutazione qualcosa cambia e qualcosa permane.

L’idealismo considera il mondo come posto dall’Io, e afferma la coincidenza tra io empirico e Io assoluto. Come si ricordava, si può dire che per Evola accettare questa identificazione è problematico. In effetti io non posso realmente ritenere che siano posti da me il mon­do, gli eventi imprevedibili, le persone che incontrerò appena svolta­to l’angolo. Tuttavia, nella fase idealista Evola, ponendosi questa obiezione, risponde: sia pure; ma da questa constatazione non conse­gue necessariamente che il principio idealista sia falso o risulti con­futato. Poiché intanto questo principio è evidente come punto di par­tenza teorico, si può seguire un’altra via e dire: l’Io che ha posto il mondo si identifica con l’io empirico, ma tale io empirico non è at­tualmente in grado di riconoscere il mondo come sua posizione; sof­fre contingentemente di una «privazione», di una insufficienza che deve essere colmata. E questo è un compito prioritario, senza il quale ogni speculazione poggia nel vuoto, o risulta inficiata da una specie di vizio di origine. Analogamente: se uno è sordo, non può ricono­scere nel movimento dei musicisti il suono della Quinta di Beethoven; perciò, prima che si possa spiegare il fenomeno del mo­vimento dei musicisti occorre che sia curata la sua sordità: solo dopo ap­parirà nella sua piena luce il senso del fenomeno. Per Evola l’ideali­smo ha affermato l’identità tra io empirico e Io assoluto, ma si è fer­mato a metà strada, limitandosi a un principio teorico privo di con­troparte reale. Ora si tratta di colmare l’insufficienza della condizione umana e arrivare a quella pienezza in cui il mondo è esperimentato come posto dall’Io. Occorre un procedimento di trasformazione del­l’uomo, una prassi.

L’agire a cui la filosofia va a subordinarsi non è un agire qualun­que; è piuttosto un comportamento speciale, e persino tecnico, attra­verso il quale deve essere realizzata la condizione di pienezza dell’io, va superata l’insufficienza contingente. Com’è noto, si usa una tecni­ca tratta dalle culture extraeuropee, o più in generale non moderne. Se la chiamiamo tradizione, conformemente all’uso che Evola fa di questo termine nel suo periodo «magico», otteniamo che la tradizione è assunta in blocco all’interno di un sistema teorico moderno, che la fonda e le dà la sua ragion d’essere. Ma, come ammetterà Evola in seguito, questo schema era errato: falsificava lo spirito delle culture tradizionali impedendo di comprenderle rettamente. Evola ha completamente riscritto alcuni suoi libri giovanili, come L’uomo come potenza, o Il libro del principio e della sua azione.

A quel che sembra, nell’approfondire la cultura tradizionale, Evo­la si imbatte nel pensiero di Guénon, e il contatto con il pensatore francese produce, o occasiona, la mutazione genetica. Tra le nozioni che Evola trae appunto da Guénon (pur con le sostanziali reinterpre­tazioni già viste, che rendono assurdo considerare Evola un discepo­lo più o meno autonomo del pensatore francese), vi è appunto la no­zione di tradizione.

L’idealismo era tutto giocato all’interno di una concezione proces­suale della storia: la storia è un processo progressivo in cui ogni fase supera la precedente, nel senso che è più ricca, più piena e, in ultima analisi, più vera. In Guénon si ha una concezione rovesciata: il pro­cesso di formazione della cultura e dell’età moderna è un cammino decadente, un allontanamento dalla pienezza originaria, dalla condi­zione di perfezione, attuale alle origini del mondo. (Prescindo ora dal carattere ciclico, periodico, della decadenza). La tradizione conserva la memoria dello stato iniziale, insieme ai mezzi con cui l’uomo può reintegrarsi in esso, mezzi che a loro volta non sono frutto di una specula-zione umana, di una teoria soggettiva: sono tecniche sapien­ziali, la cui origine si colloca nello stesso stato iniziale e la cui legit­timazione sta nel risultato operativo che possono produrre. L’ascesi iniziatica annulla la condizione decaduta della natura umana. Evola prende questo schema, con una reinterpretazione non certo margina­le, che Guénon sembra non aver mai condiviso, relativamente a ciò che abbiamo chiamato contatto diretto.

Esaminiamo un punto teoretico che si fa subito problematico non appena l’idealismo evoliano entra in contatto con questa prospettiva capovolta.

Come tutte le teorie, l’idealismo ha dei presupposti, non necessa­riamente espliciti. Ora, la sua concezione progressiva presuppone, in fondo, qualcosa che la filosofia ha sempre dato per scontato, almeno da Aristotele in poi, cioè che i modi della percezione umana non cambino nel tempo. Cambia, naturalmente, l’interpretazione che si dà al percepito, ma non cambiano i meccanismi della percezione: i sensi fisici, forse lo stesso funzionamento della mente. Per un greco antico e per un uomo moderno, uno stesso bosco e una stessa monta­gna non hanno lo stesso significato; c’è un’interpretazione diversa, vi­sto che noi parliamo di molecole e gli uomini antichi parlavano di dèi e ninfe. Accantoniamo il problema se l’idea della molecola sia o no un progresso rispetto all’idea della ninfa dei boschi: in entrambi i casi c’è uno stesso presupposto, e cioè che tanto nell’antico quanto nel contemporaneo l’immagine della montagna nella retina si forma allo stesso modo. Non è che noi vediamo concretamente cose che gli an­tichi non vedevano, né sentiamo una diversa sensazione quando la nostra mano tocca la nuda roccia. Posto un oggetto che non avesse subito nessuna modificazione negli ultimi cinquemila anni, esso sa­rebbe stato percepito allo stesso modo dagli uomini vissuti nel frat­tempo. Questo è indubbiamente un presupposto dell’idealismo e del­l’intera filosofia. Soprattutto, è inevitabile per sostenere una conce­zione progressiva. Se cambiassero i modi della percezione e, indi­pendentemente dal momento interpretativo, si percepissero immagini diverse, non si potrebbe più parlare di progresso: immagini diverse potrebbero riferirsi a oggetti diversi, e avremmo due interpretazioni diverse, collegabili a oggetti diversi, senza che sia più possibile con­siderare l’una migliore e più completa della seconda.

Ora, per calare questa considerazione nella realtà, e mostrare in che senso Evola si sottrae all’idealismo, mi sia consentito un ragiona­mento per assurdo. Supponiamo che l’uomo sia un mutante, e che la mutazione abbia avuto per oggetto gli organi della percezione. Di fronte al reale, questo mutante avrebbe immagini diverse, sensazioni diver­se, che verrebbero rielaborate concettualmente con organi diversi: avrebbe evidenze diverse. In tal caso non potremmo dire immediata­mente che la visione del mutante è un progresso rispetto alla visione precedente la mutazione. Quantomeno, dovremmo prima porre il problema di quale per-cezione sia vera. Ci troveremmo dinanzi a due concezioni, fondate su due visioni irriducibili perché, anche se fanno riferimento a uno stesso oggetto (cioè a un oggetto supposto identico) nascono da due esperienze non omogenee. Un discorso teorico potrebbe, ad esempio, ricondurre la visione del mutante a una degenerazione fisica, e quindi parlare di questa visione in termini di decadenza e abbandono di una percezione normale. Cioè questa visione verrebbe considerata priva di valore intrinseco, indipendentemente dalle argomentazioni che la fondano e persino dalla sua evidenza di fatto per il mutante.

Orbene, parlando in modo semplificato, ma non troppo, si potreb­be riassumere il pensiero di Evola e Guénon su questo punto dicen­do: l’uomo moderno è realmente un mutante. E questo è il modo in cui Evola si sottrae all’evidenza dei principi filosofici moderni, relati­vizzandoli. In termini molto formali, Evola ha parlato spesso di un processo – negativo – di «fisicizzazione dell’io», il quale conduce ap­punto a una perdita di evidenze: non sono più evidenti nozioni arcai­che quali l’identità tra atma e Brahman, cioè nozioni che erano la pura e semplice espressione diretta di una realtà di fatto, esperimen­tata e compresa in modo immediato dall’uomo di altre epoche stori­che. Fisicizzazione non significa che un’idea si è perduta, fatto bana­le e frequente nella storia, ma piuttosto che quest’idea non può più essere trovata né pensata, perché non può più essere vissuta ed espe­rimentata la realtà a cui si riferisce. Un organo si è amputato, e di conseguenza l’idea viene perduta.

Naturalmente, il processo di fisicizzazione non riguarda il modo d’essere del Principio; piuttosto è un cambiamento nel modo di essere dell’uomo. Si potrebbe anche dire che sono cambiate le forme a priori della conoscenza, le quali dunque non erano real­mente a priori. Si pensi all’idea evoliana dell’esperienza sovratempo­rale della temporalità, esposta nelle pagine introduttive di Rivolta contro il mondo moderno.

Abbiamo dunque l’idea di una perfezione o pienezza originaria progressivamente perduta. Allora non si tratta più di colmare l’insuf­ficienza dell’io, per tener ferma la tesi idealista. Le tecniche di realiz­zazione non vengono più proposte per raggiungere un momento di perfezione situato nel futuro, e in un’ottica solipsista; servono invece a reintegrare il soggetto nella condizione di pienezza già esistita nel passato primordiale. C’è una continuità tra le due interpretazioni: in entrambi i casi la teoresi subisce una svalutazione rispetto alla prassi; nell’idealismo, perché la realtà si rivela insufficiente rispetto al prin­cipio teoretico; nello schema tradizionale, perché la fisicizzazione impedisce di cogliere l’evidenza del principio teoretico (identità di atma e Brahman: cosa non molto distante dall’identità tra io empirico e Io assoluto). C’è sempre un handicap iniziale che condiziona il pen­sare e lo rende, per così dire, spurio. D’altronde, senza questo limite iniziale la teoresi non avrebbe realmente alcun senso.

C’è poi un secondo e conseguente punto di continuità nel perma­nente valore assegnato ai metodi tradizionali di autorealizzazione. Ma c’è anche un’ovvia differenza. Prima questi metodi si trovavano dentro un contesto teorico idealista; l’idealismo li fondava o giustifi­cava o in qualche modo li richiedeva, mostrando l’insufficienza del­l’io e postulando un’azione capace di colmarla. Ora, invece, la situa­zione è rovesciata: i metodi di realizzazione, trasformando la perso­na, conducono a una conoscenza di ordine superiore, e di conseguen­za giustificano, fondano o rendono autorevoli le esposizioni verbali di questa conoscenza. Le parole del sapiente non hanno valore in quanto parole, ma in quanto dette da una persona che, attraverso un cammino ascetico, ha ottenuto una trasformazione e possiede una condizione ontologica diversa da quella dell’uomo della strada. Di conseguenza, l’esposizione della dottrina, in quanto esposizione, non è più criticabile da chiunque, proprio per il carattere eterogeneo del­l’esperienza del sapiente: l’affermazione di un mistico, ad esempio, può non essere condivisa, ma non può es­sere smontata con la semplice dialettica; a qualunque ragionamento, il mistico può opporre che parla per esperienza, e che l’interlocutore vedrebbe da sé la falsità delle controargomentazioni se partisse dalla stessa esperienza. Il mistico dice che Dio esiste, perché lo ha incontrato: questo potrà essere considerato fuori dalla filosofia, ma dentro la mistica è assolutamente inattaccabile.

Tuttavia, anche all’interno di una tradizione sapienziale possono esistere discussioni nel merito della formulazione del sapere, ma non sul metodo di realizzazione, ed è possibile che le divergenze nascano dal fatto che gli interlocutori non si trovano sullo stesso livello di tra­sformazione o realizzazione spirituale: si potrebbero dare divergenze relative ai distinti piani dell’ascesi o conoscenza. Da questo punto di vista, riconosciuto che Evola non si è mai dato seriamente l’aria del mago, resta pur sempre indubbio che ha posto su un piano più alto il sapere che presentava attraverso i suoi libri: ha cercato di renderlo inattaccabile, con argomentazioni che non sono certo prive di inte­resse. Così facendo, però, era inevitabile che il suo pensiero assu­messe il carattere di un sistema globale, e inoltre di un sistema chiu­so. Ed è in fondo ciò che Evola voleva: la costru­zione di un sistema globale alternativo alla visione moderna.

Se il metodo tradizionale è autorevole per i risultati che offre in termini di trasformazione della persona (trasformazione che Evola colloca sul piano ontologico, e non soltanto su quello psicologico), allora viene automaticamente aggirato o evitato il fondamento delle dottrine moderne: la trasformazione ottenuta è una sorta di prova sperimentale del fatto che la dottrina moderna si basa su principi re­lativi. Cioè relativi alla pura speculazione individuale, soggettiva, che non arriva alla realtà profonda delle cose. Questo carattere relati­vo di ogni visione meramente intellettuale potrebbe spiegare il disin­teresse di Evola verso correnti del pensiero europeo contemporaneo che, al loro modo, erano critiche nei confronti della modernità filoso­fica e dell’idealismo in particolare: la fenomenologia, la filosofia del­la vita, l’esistenzialismo, il personalismo, la cosiddetta scuola di Ma­drid, ecc.

Abbiamo dunque una visione completamente opposta a quella moderna e altrettanto sistematica. E come la modernità, con la con­cezione progressiva della storia, era giunta a svalutare in blocco il passato tradizionale (salvo gli aspetti che arbitrariamente interpretava come anticipazioni o germi della nuova era), così il sistema evoliano nega in blocco la modernità, la svaluta fino alle estreme conseguen­ze, con un radicalismo che spesso ha lasciato perplessi anche intellet­tuali di ispirazione tradizionalista. Ne è un esempio la svalutazione del rinascimento. (Veramente, Evola non dà una sua interpretazione del rinascimento: accetta nella sostanza ciò che ne dice la storiogra­fia moderna, e ritiene negativi quegli stessi elementi esaltati da tale storiografia. Non tenta una visione diversa del rinascimento, che ten­ga presenti elementi in fondo estranei ai percorsi della modernità, come l’influenza del cristianesimo ortodosso, la critica dell’aristoteli­smo, ecc.).

Ora, l’antimodernismo di Evola, si diceva, è una filosofia che ri­sulta da una prassi. Tuttavia è pur sempre neces­sario che questa prassi sia detta, sia interpretata. Che facendo certe cose l’uomo arrivi al risveglio, alla trasformazione, questo può essere un fatto. Ma questo fatto ammette diverse interpretazioni. Intanto apre lo spazio a un problema teorico: perché un certo comportamento produce certe mutazioni nella condizione umana? Questo è un pro­blema teorico: nessuno ci obbliga formalmente ad accettare le rispo­ste che ne davano gli antichi. Il fatto della mutazione, in sé e per sé, non dimostra che il cambiamento sia un recupero della condizione pri­mordiale; potrebbe trattarsi dell’acquisizione di una condizione nuo­va. Ecco allora una difficoltà: come si fa a dire formalmente, dentro un’esposizione sistematica, che l’età primordiale è un’età di pienezza, anziché un germe destinato allo sviluppo?

Evola risponderebbe che la tradizione non è un’invenzione, ma un fatto storico concreto, di cui abbiamo mille testimonianze; e certa­mente, se ci occupiamo di storia, le testimonianze non si possono ac­cantonare; vanno tenute presenti, e soprattutto vanno spiegate. La modernità ha elaborato sistemi chiusi, con la pretesa di spiegare tutto il passato umano. È nota la sfida lanciata da Comte: presiederà l’av­venire solo la filosofia che sarà riuscita a spiegare tutto il passato. Ma le spiegazioni moderne hanno, per Evola, due caratteristiche. Anzitutto, si tratta di teorie interpretative, evidentemente. Inoltre sono spiegazioni insufficienti, che trascurano molti ordini di dati: per esempio, fraintendono completamente la «realtà metafisica», e trascurano la stessa nozione di tradizione che, prima di essere una teoria, è un fatto sociologico. Di conseguenza, una spiegazione alternativa di tali fatti, suscettibile di reggere sul piano storiografico, farebbe emergere nella loro giusta luce realtà estranee al clima spirituale e intellettuale della modernità. Da qui il tentativo di Rivolta contro il mondo moderno, come interpretazione globale della storia: una visione antitetica a quella del progressismo, ma storiograficamente fondata, almeno a suo modo. Si potrebbe anche dire che, rifiutata la teoria pura, la nuova frontiera del pensiero è per Evola la storia.

Le fonti storiche, però, necessitano di un metodo di interpretazio­ne. Evola utilizza i progressi dell’etnologia, della storia delle religio­ni, della filologia e aggiunge anche l’analisi comparata dei dati. In questo è indubbiamente un pioniere, e la sua attività è estremamente importante per la conoscenza delle culture extraeuropee. Circa l’ana­lisi comparata dei dati, sviluppa un metodo personale, che si può non condividere, ma che ha un buon fondamento razionale e rappresenta un elemento indubbiamente moderno. Per comprenderlo, basti un ra­pido raffronto con la comparazione a cui ricorrono storici come Elia­de.

Per Eliade, si tratta ad esempio di paragonare una cultura primiti­va, ma sulla quale abbiamo dei dati perché sopravvive oggi, con una cultura analoga ma antica, sulla quale non abbiamo dati sufficienti, per vedere se le testimonianze concordano con il sistema culturale conosciuto, e se questo consente di integrare le lacune. Evola, invece, analizza comparativamente molte tradizio­ni, anche diverse tra loro, e scopre la presenza di schemi, strutture, formulazioni comuni e coerenti tra loro. Ovviamente esistono anche le differenze. Ma, in effetti, nota che, a partire dall’idea di una unità di fondo delle varie tradizioni, o di una loro unità di origine, sono spiegabili tanto le costanti quanto le varianti – che avrebbero un’origine umana, contingente, legata alla diversità delle situazioni storiche. Invece, a partire da una concezione progressista risulta difficile spiegare gli elementi costantemente presenti nelle varie culture. Lasciamo perdere che questo non è necessariamente vero e che esistono altre possibili spiegazioni: accettiamo che queste coincidenze siano un fatto storico. È chiaro allora che il tentativo di Rivolta consiste nel raccogliere ciò in cui le culture tradizionali coincidono, nella loro realtà storica di fatto, nel mostrarne la coerenza e farne la chiave di lettura di tutti i dati storici: le varianti, o differenze, appaiono allora come distacco dalla tradizione unica. Il che, dal punto di vista teoretico, non è affatto assurdo, anzi è plausibile. Ma nulla di più.

Si tratta, come si diceva, un metodo di tipo razionalista. La prima parte di Rivolta descrive la morfologia della tradizione: non questa o quella tradizione storica, bensì la Tradizione con maiuscola. E questa morfologia, che delinea una forma archetipica delle civiltà, è composta dagli ele-        menti coinci­denti delle varie culture. In tal senso, presa una realtà storica com­plessa, Evola la valuta secondo un criterio estrinseco, e la divide in due parti di valore disuguale: la parte in cui essa coincide con le altre culture storiche ha un rango più elevato della parte in cui diverge dalle altre culture storiche. Questo è propriamente l’aspetto razionale della teoria: un procedimento di astrazione consente di pervenire a un concetto al quale si presume che corrisponda una realtà. Così, con una metodologia moder­na e nel rispetto delle debite procedure, viene costruita formalmente una concezione non moderna.

Vi sono altri problemi. È chiaro che, come libro isolato, Rivolta presenta una tesi plausibile, e niente di più. Questo Evola lo sa bene, e sa che non gli è sufficiente, gli è necessario un passo ulteriore. L’indagine storiografica gli ha mostrato, o ha comunicato al lettore, un’idea della realtà diversa da quella tipica del pensiero moderno. Pertanto, l’intera epoca moderna ne risulta relativizzata: non potrebbe porsi come assolutamente superiore al passato tradizionale, laddove si accolga la tesi di Evola. Ma ora questi deve tentare un salto di qua­lità per ottenere due risultati. Anzitutto, che non si tratti solo di con­trapporre due modi di vedere la vita: perché è chiaro che anche l’età moderna relativizza il passato tradizionale. E in secondo luogo, che la ricostruzione della tradizione non abbia il valore di una mera teo­ria interpretativa, e risulti piuttosto una visione confermata dall’espe­rienza, cioè fondata su quella prassi di cui si parlava prima.

In termini evoliani, la Tradizione non è semplicemente la situa­zione dell’uomo nell’età primordiale. Le fonti di ogni genere, da cui deriva l’idea della Tradizione, non sono considerate come prodotto di una speculazione personale, ma come traduzione, espressione in pa­role, concetti, narrazioni mitiche, di una diversa condizione dell’uo­mo. Poiché Evola parla di questa diversità in termini ontologici, di­ciamo che la cultura tradizionale è comunque la manifestazione di un’umanità ontologicamente diversa. L’uomo che ha prodotto questa cultura esperimentava un reale contatto con la Realtà Metafisica, con il Principio, o il divino. Questo contatto è esattamente ciò che manca all’uomo odierno, e inoltre è l’elemento che spiega gli aspetti unitari delle tradizioni storiche. Ora, chiaramente, finché uno non realizza tale contatto, la Tradizione non gli sembrerà altro che una semplice ipotesi interpretativa.

Evidentemente, nel passaggio dalla fase tradizionale alla fase mo­derna è l’uomo che cambia, e non la Realtà metafisica. Se essa è oggi meno accessibile, non è per un suo decreto, ma per le mutate condi­zioni di fatto dell’umanità. L’uomo deve superare un maggior numero di ostacoli per realizzare l’accesso. Ma in via di principio, la Realtà metafisica rimane aperta e accessibile. Si tratta dunque di trovare un campo in cui l’uomo odierno, così come è nelle sue condizioni attuali, possa avere un’esperienza che, in primo luogo, sia esperienza di tale Realtà, e in secondo luogo sia irriducibile a qualunque altra interpretazione in termini psicologici o biologici, o scientifici e intramondani. Inoltre, e come conseguenza del primo punto, dev’essere un’esperienza virtualmente trasfigurante. Questo è ciò di cui si occupa Metafisica del sesso.

Metafisica del sesso è un li­bro di metafisica e non di sessualità, ed è tra le migliori opere di Evola. Questo non esclude che vi si trovino punti da discutere. Non discuto affatto l’interpretazione data ai testi antichi e ai miti, che pongono in primo piano la concezione sacra e liberatoria del sesso, però di­scuto le modifiche che l’interpretazione subisce quando viene inserita in blocco nel sistema teorico evoliano.

Metafisica del sesso si apre con un’analisi che sottrae il sesso, in­teso come esperienza reale, alle interpretazioni formulate da un pun­to di vista fisiologico, psicanalitico, biologico o quel che sia: cioè non si può partire da una cosa che non sia il sesso per spiegare il ses­so, non si può ridurlo ad altro. Va benissimo. Ma poi lo stesso Evola dice, con una caduta di stile, che non si tratta dell’esperienza sessuale quale la vivono un qualunque Armando e una qualunque Mariolina: e questo non va bene più. Perché, senza rendersene conto, Evola ha spostato tutta la sua analisi su un piano che non ha nulla a che vedere col sesso reale. O, se si vuole, sposta la normale esperienza sessuale su un piano che non ha nulla a che vedere con la sua analisi. Il che è discu­tibile.

Faccio un esempio per chiarire questo spostamento. È noto che una grande quantità di sciamani antichi ha usato la corsa per indurre stati estatici e di alterazione della coscienza. Accetto pienamente che queste alterazioni, ottenute con il loro contesto rituale, rappresentino modi superiori della coscienza e non semplici trance; posso persino ipotizzare che tutti gli sciamani antichi abbiano fatto ricorso a questo metodo. Ora, io scrivo un libro, e sostengo che tratterò della corsa dal punto di vista metafisico; e risulta che la corsa è ciò che conduce a un’esperienza estatica, e non ha nulla a che vedere con la corsa qua­le la vivono Armando e Mariolina. Ma allora, che cosa è la corsa di Armando e Mariolina? E cosa la differenzia dall’esperienza che ha in mente Evola? O il sesso, come la corsa o la danza, sarà una qualunque attività che lo sciamano usa a modo suo, prescindendo da ciò che essa è naturalmente all’in­terno di qualunque vita umana?

Naturalmente, Evola non cade in questa semplificazione. Con una sintesi estrema, ma credo accettabile, sostiene questo: ciò che l’uomo esperimenta nella vicenda sessuale completa, dall’inizio fino alla fine, è il contatto con una forza (il termine è inadeguato) che, per così dire, si impadronisce di lui, lo esalta, lo trascina e poi, nel mo­mento dell’orgasmo, lo abbandona. La tensione psichica e fisica che la persona vive in questo lasso di tempo è il contatto con questa for­za, o Realtà metafisica. La «crisi» dell’orgasmo, parlando in termini evoliani, è anche l’incapacità di restare dentro questa dimensione, o forza, o Realtà; e se tale incapacità fosse superata, la persona supere­rebbe anche la sua condizione umana attuale, decaduta. Il che chiari­sce perché la tecnica sciamanica – tantrica, nella fattispecie – consista nel ritardare l’orgasmo, prolungando il contatto, fino al punto in cui esso diventa un abito acquisito. In questo senso, dal punto di vista di Evola, Armando e Mariolina perdono l’occasione. Tuttavia, il carat­tere apicale e vorticoso dell’esperienza dimostra che la perdono in un momento in cui sono già molto vicini a conseguirla; tant’è che, se­condo Evola, l’esperienza stessa non è riducibile a spiegazioni di or­dine scientifico o meramente intellettuale.

Si noterà che qui esistono due momenti: uno è la concezione non moderna del sesso, come viene ricostruita; l’altro è il rivestimento concettuale creato da Evola che presuppone una forza, che in fondo è esterna ai due amanti.

Ho già detto che il termine forza è inadeguato, e appartiene alle metafore più o meno imprecise. Ma deriva dal testo di Evola. Non si tratta di una forza meccanica. Secondo un esempio dello stesso Evo­la, l’attrazione tra l’uomo e la donna, che poi culminerà nel rapporto, si produce analogamente all’attrazione tra una particella elettrica po­sitiva e una negativa, e questa tensione attrattiva è l’esperienza della Realtà metafisica. Questo equivale a dire che la persona maschile è eccitata dalla persona femminile, e viceversa, il che è perfettamente falso, per incompletezza. Non è affatto vero che l’uomo è eccitato dalla donna, dall’esterno, e viceversa che lo sia la donna dall’uomo. La persona umana non potrebbe essere eccitata da un’altra persona, se previamente non avesse una sua intima e personale vocazione al­l’amore – in tutta l’estensione del termine. La persona ha nelle sue vo­cazioni anche quella all’amore, e il suo stato di eccitazione nasce dal vedere nell’altro (altra) la possibilità di realizzare questa parte impor­tante della sua vocazione. E siccome il principio, o Dio, è trascen­dente ed anche immanente alla realtà, c’è lo spazio per ipotizzare la vocazione come un’operazione del divino, e quindi per considerare l’amore di Armando e Mariolina come una realizzazione piena ed ef­fettiva di loro stessi e dell’incontro con Dio. E il limite dell’esperien­za non sarebbe dato dal fatto che essi perdono l’occasione di diventa­re sciamani, ma dal puro e semplice fatto che non hanno la vocazione allo sciamanismo bensì alla realizzazione di altre vite.

Questa interpretazione salverebbe tutto il valore delle testimo­nianze antiche riprese da Evola, ma senza la frattura che esclude Ar­mando e Mariolina dai benefici del caso. E non dico che questa inter­pretazione sia giusta mentre quella di Evola non lo è: dico solo che essa si muove tra gli stessi dati storici, legge gli stessi dati di cui trat­ta Evola. Dunque, in questo contesto, non mi serve per sostenere le mie idee contro quelle di Evola (cosa che sarebbe estremamente fa­stidiosa e impertinente), ma al puro scopo di mostrare la componente dell’interpretazione personale, sistematica che i dati subiscono. E non potrebbero non subirla.

Ci sono poi altre difficoltà generali che il sistema di Evola deve affrontare. Prima tra tutte il problema esistenziale. Un uomo che cre­da nei principi tradizionali, magari anche solo per essere stato con­vinto dai testi evoliani, vive nondimeno nel mondo moderno. Come potrà essere coerente e fedele a se stesso? Come potrà stare in questo mondo senza appartenergli?

A questa domanda Evola risponde presentando almeno quattro possibilità, o vie, o percorsi.

1. C’è il cammino di chi combatte il mondo moderno sul piano politico. Vive qui, ma non condivide le proposte di questo mondo e si batte per cambiarlo in senso tradizionale. È l’aspetto propriamente reazionario del pensiero di Evola, che purtroppo è stato spesso di­storto, neanche si trattasse di restaurare l’impero romano, o cose del genere. Men che meno di riportare in vita il fascismo. Se si leggono le pagine de Il fascismo, si noterà che Evola si propone tra i suoi sco­pi proprio di salvare il lettore di «destra» da un’accettazione acritica del fascismo. Naturalmente non cede nulla alla sinistra (e l’interprete odierno deve chiedersi quale fosse la sinistra, dentro il clima di guer­ra fredda e contrapposizioni radicali in cui la posizione politica pesa­va sopra la posizione culturale), e condanna con uguale forza l’inter­pretazione che vede nel fascismo un assoluto negativo.

Ora, nel chiarire quali siano gli elementi validi del fascismo, Evo­la usa come criterio non un concetto intrinseco a una definizione del fascismo stesso, ma un concetto estrinseco e riferito a una realtà che preesisteva al fascismo storico: la Destra, con maiuscola, termine di cui si è già parlato, e che compare come sinonimo di Tradizione, ugualmente con maiuscola. Una nozione categoriale e metastorica è il criterio di esame di una realtà storica e serve a stabilire che cosa in essa abbia valore o non lo abbia: è un metodo perfettamente legittimo, ma applicabile a qualun­que movimento politico concreto, senza che mai si possa identificare il criterio con il movimento.

L’ideario politico di questa Destra – termine che Evola, comun­que, dice di non gradire – è formulato ne Gli uomini e le rovine, e si mostra sostanzialmente coincidente con il pensiero europeo conser­vatore dell’Ottocento e del primo Novecento, peraltro moderato ri­spetto a un certo ultramontanismo del secolo scorso. Più interessante, semmai, è notare che Evola non proponga l’atteggiamento reazionario come conseguenza logica, inevitabile e obbligata della visione tradi­zionale, ma come una via possibile, un percorso che, accanto ad altri, è praticabile da chi voglia mantenere una sua fedeltà alla concezione (presuntivamente) tradizionale dello stato e della società, cercando ovviamente di calar­la nella prassi quotidiana.

2. Nel mondo moderno, l’uomo della tradizione può vivere anche dedicandosi alla testimonianza culturale, allo studio delle civiltà tra­dizionali. È un’attività intellettuale con cui ci si disidentifica dalla modernità e si evita, con parole di Evola, che questa possa davvero chiudere ogni orizzonte e proporsi come l’unica cultura possibile.

3. Oppure si può vivere questo mondo come una qualunque con­dizione di partenza, forse più sfavorevole rispetto ad altre, per rag­giungere la propria meta della trasformazione interiore, del risveglio, della realizzazione spirituale: La dottrina del risveglio potrebbe esse­re considerato il breviario adatto per questa scelta.

4. Poi c’è l’altro modo: vivere questo mondo, esplorandone le ine­dite possibilità, liberi da qualunque forma di fedeltà o giuramento alle sacre istituzioni ormai inesistenti, e autonomi quanto alla proget­tazione del proprio futuro. I valori tradizionali sono allora valori puri, che non vengono più visti nella loro incarnazione in forme sto­riche, e che possono ispirare forme di vita del tutto inedite: Cavalca­re la tigre.

Queste sono essenzialmente le risposte di Evola al problema esi­stenziale dell’uomo della tradizione nel mondo moderno. Ma c’è un’ulteriore difficoltà, e stavolta di natura metafisica. È evidente: Evola esclude comunque la soluzione di diventare moderni; cioè la modernità è e resta illegittima. Perché? Perché sono illegittimi i valo­ri che sostiene. Di fatto, la modernità è per lui una decadenza, un allontana­mento dal sacro, un distacco dalla Realtà metafisica. Però, se così è, si pone un problema distruttivo sul quale – credo – Evola ha medita­to per anni: perché è illegittimo allontanarsi dal sacro quale Evola lo ha definito? (È diverso dal chiedersi: perché è illegittimo allontanarsi dal sacro? punto e basta. La prima domanda mette in discussione la definizione del sacro, non il giudizio sul male, sul peccato, o comun­que lo si voglia chiamare).

In sostanza, Evola ha fornito una descrizione della Tradizione, uno o più campi di esperienza per viverla e toccarla – toccarne la fon­te: la Realtà metafisica – e poi una gran teoria su come si passa dalla Tradizione al mondo moderno. Questo suppone che il passaggio sia concretamente possibile: se è avvenuto, è perché poteva avvenire, in­dipendentemente dal fatto che non doveva, per una questione morale. Ma se poteva avvenire, si pone una questione metafisica. Cioè: dal punto di vista metafisico, che cosa è il mondo moderno? Gli uo­mini moderni sono reali, non sono fantasmi e nemmeno dèi: come può esistere questa loro realtà di fatto? Qual è la loro ragion d’essere formale? O, con un altro linguaggio: da dove viene fuori il male? La realtà moderna esiste illegittimamente, per un atto arbitrario e pecca­minoso dell’uomo? O esiste legittimamente, in quanto è posta in es­sere dal Principio e con il suo beneplacito? Questo è il problema.

Si potrebbe rispondere che è un falso problema: a spiegare l’esi­stenza della modernità è sufficiente la libertà dell’uomo, che è re­sponsabile della sua scelta: può scegliere il bene o il male, e se sce­glie il male ne pagherà il fio. Certo, si potrebbe rispondere così; ma facendo appello a una teologia o a una metafisica del tutto incompa­tibile con quella di Evola. All’interno delle premesse evoliane, non si può dare all’esistenza della modernità un valore morale (negativo), senza entrare in contraddizione con alcune nozioni metafisiche che costituiscono il sistema. Come dicevo, non si tratta della questione di sapere se è lecito ammazzare la gente: è chiaro che non è lecito, neanche per Evola; si tratta di una questione strettamente teoretica: con quale ragionamento mostriamo che non è lecito, con quali con­cetti o nozioni, all’interno di un sistema.

Il fatto è che Evola assegna esplicitamente un valore categoriale tanto alla tradizione quanto alla stessa modernità: tradizione e mo­dernità, entrambe, sono categorie metastoriche. E in quanto metasto­riche non possono essere semplici progetti di vita umana, elaborati dalle persone storiche. Le persone storiche possono scegliere il pro­getto della loro vita (moderno o tradizionale) in quanto prioritaria­mente esistono la categoria della tradizione e la categoria della mo­dernità. Ora, se la scelta umana cade interamente dentro la valutazio­ne morale, per cui una scelta può essere concreta ma illegittima, una categoria metastorica non può cadere nella valutazione morale. In sé e per sé, come realtà previa agli uomini, non possiamo definirla ille­gittima, senza attribuire una illegittimità a chi l’ha posta in essere. E siccome non è l’uomo ad aver posto in essere una categoria metasto­rica, si dovrebbe dire che la sua esistenza è frutto di un atto illegitti­mo del Principio, il che è francamente assurdo. Ma se la modernità è, come Evola dice e ribadisce più volte, una categoria metastorica, e non soltanto un concetto storico a posteriori, elaborato dalla specula­zione umana, allora come fa a essere anche illegittima? Significhe­rebbe che è illegittima una parte della realtà in quanto tale, ma: in virtù di quale principio? La modernità storica è perfettamente confor­me a una categoria metastorica, cioè metafisica: questo è il problema di Evola. La modernità sfugge a una valutazione morale. E non è un problema di facile soluzione, a meno che non si voglia ammettere che sia la tradizione sia la modernità sono categorie storiche, cioè concetti formulati dalla speculazione intellettuale: ipotesi teoriche.

Cerchiamo di definire bene il pensiero di Evola. A volte si è pro­pensi a pensare che, ad esempio, la Roma arcaica è tradizionale in conseguenza del fatto che vi è presente la figura del re. Evola invece segue un cammino praticamente inverso: siccome Roma è una realtà tradizionale (=è caratterizzata da un contatto operante con la Realtà metafisica), di conseguenza si struttura in forma monarchica, anziché secondo le regole democratiche del suffragio universale. (Il re, nell’e­sempio, sta semplicemente a significare un certo tipo di ordinamento sociale e statuale che ora è inutile descrivere nel dettaglio). Dove c’è la tradizione, e proprio perché c’è, abbiamo dunque il re; invece non è sempre vera l’inversa, che dovunque c’è il re siamo in presenza di una società tradizionale: potrebbe trattarsi del classico re da operetta. A dimostrazione, c’è un’idea antica ripresa in Rivolta: in certi popoli, quando le cose andavano male, le colpe erano attribuite al re e si pensava che egli avesse perduto il mistico potere di auctoritas, il suo contatto vivente con la Realtà metafisica.

Per Evola, sul piano stori­co, è tradizionale il modo in cui si struttura una società quando si fonda sul contatto vivente col divino; e l’effetto di questo contatto produce un ordinamento che corrisponde a una categoria metastorica. Di conseguenza, dalle forme storiche possiamo desumere «la» Tradi­zione, come categoria. Ora, questa realtà categoriale deve spiegare le forme non tradizionali, soprattutto perché ha dato per scontato che il «contatto» con la realtà metafisica produca uno, e uno solo, modello di civiltà: bisognerebbe dimostrare che tale contatto non possa produrre un modello di società democratica e persino socialista: si può considerare aberrante l’idea di una società tradizionale e socialista nello stesso tempo, perché i due termini sono incompatibili dentro la concezione di Evola, ma in nessun punto del suo sistema è dimostrato che debbono esserlo – cioè che esista solo la possibilità di definire la Tradizione nel modo in cui è stata definita (peraltro dopo aver eliminato come inessenziali tutti gli elementi di socialismo presenti dovunque nelle civiltà del passato, per non citare Platone). Per tornare all’esempio: si può accettare che una società connessa al sacro si strutturi in forma monarchica, ma non sta scritto in nessun posto che non possa strutturarsi anche in forme diverse. L’esclusione di altre forme di organizzazione non è un dato primario, ma il risultato teorico dell’aver costruito una certa nozione della Tradizione, assegnando valore a certi dati e negandolo ad altri.

Inoltre resta da spiegare metafisicamente la possibilità che si possa vivere senza il con­tatto col sacro. Se il contatto col sacro è la realtà in senso eminente, deve esistere qualcosa che consenta di essere, di esistere, a una realtà ontologicamente scissa e separatasi dal sacro.

Ora, Evola non può accettare che questa scissione derivi solo da un atto libero dell’uomo (come ad esempio accade nel pensiero cri­stiano, con una serie di implicazioni incompatibili con il sistema evoliano), perché precedentemente ha dato credito a una legge estrema­mente importante per il suo tentativo di costruire un sistema alterna­tivo alla modernità: se crolla questa legge, crolla la spiegazione di tutti i fatti storici, e viene meno la possibilità di battere la visione progressista. È la legge della decadenza, o legge della regressione delle caste: la dottrina delle quattro età, dall’oro al ferro, esposta in Rivolta, e poi in moltissimi altri testi. È un pilastro della costruzione evoliana. Dà la possibilità di interpretare l’intero processo storico a partire dal apere tradizionale, conservando la differenza di valore tra l’inizio (aureo) e la fine (fer­rea, moderna), in un capovolgimento della concezione di Comte. E come il progressismo, attraverso la sua idea evoluzionista, fornisce la ragion d’essere del passato nel momento stesso in cui lo svaluta, così Evola ha necessità di una metafisica della storia che spieghi la ragion d’essere del presente nel momento in cui lo rifiuta. E si tratta di ragion d’essere, non di valutazioni morali. Senza la legge  delle quattro età, cioè senza il valore metastorico della decadenza, viene meno la differenza ontologica tra l’esperienza tradizionale e quella moderna – cui si era alluso con l’esempio del mutante – e che era necessaria in chiave anti-idealista. Da qui la necessità di accogliere come legge una formulazione tradizionale che potrebbe anche essere interpretata diversamente, come elenco tipologico di situazioni storiche conseguenti a una scel­ta storica, e senza implicazioni metafisiche: è il modo in cui la dottri­na degli yuga, o età, compare ad esempio in Ortega. Evola assume le due categorie Tradizione e Modernità come strutture a priori della storia, e la storia umana è letta nei termini di un processo che, conformemente a una legge, si svolge in forma ciclica. Dal punto di vista umano, la storia è il succedersi di cicli che si ripetono: dalla tradizione alla modernità, poi alla tradizione ancora, e via di seguito. Ma siccome questa legge è metafisica, ecco la possibilità di domandare: perché mai la modernità sarebbe illegittima? visto che non è affatto una realtà umana, troppo umana. Tra l’altro, il discorso di Evola, in modo perfettamente coerente, poggia su una ben precisa concezione del divino: questi opera sia la manifestazione, o produzione di cosmos, sia la dissoluzione o riassorbimento del cosmos, ciclicamente. E non si vede perché sarebbe intrinsecamente illegittimo dare una mano alla divinità dissolvente, diventando moderni.

Evola risponderebbe che non si tratta di una questione morale, ma di una questione di fatto: seguire un archetipo è immortalante, segui­re l’altro è dissolutivo, disgregante. È un processo oggettivo, o kar­ma. Il quale, intanto, è un’interpretazione e non un fatto. Ed è un’in­terpretazione molto statica e concettuale. Inoltre, il karma riguarda la singola persona e non l’intera realtà, della quale l’io può perfettamen­te disinteressarsi: sarò o non sarò mortale, a seguito di quello che ho compiuto io, e non in relazione al fatto di vivere in un mondo disso­luto. Ma il processo karmico, inteso come conseguenza oggettiva delle mie scelte, non può né legittimare né delegittimare: semplice­mente, agisce a posteriori, ed è perfettamente possibile che il karma distrugga una persona per un certo atto, ma non un’altra per lo stesso atto: se San Francesco fosse andato a fare il falegname, il suo karma lo avrebbe distrutto, perché avrebbe tradito la sua vocazione o missione. Ma ciò non significa che fare il falegname sia il­legittimo in sé. Dunque non si vede perché essere moderni sia illegit­timo in sé. Tra l’altro, su questa illegittimità non sarebbero d’accordo intere tradizioni, come lo zen, tanto per citarne una. O il cristianesi­mo, che appunto veniva considerato da Evola una tradizione a metà.

Insomma, qui c’è un blocco teoretico: il fondamento del sistema evoliano è tale che o fonda la concezione della storia o fonda l’etica, ma non può fondare entrambe senza distruggersi. Tira da una parte, o tira dall’altra, Evola ha lo stesso problema dei teorici della moderni­tà: non spiega tutto. Per questo non va oltre il livello di una interpre­tazione. Affascinante quanto si vuole, ma non assoluta.

Bisogna dire che la strutturazione della cultura tradizionale in si­stema alternativo alla modernità è un fenomeno generalizzato, so­prattutto nell’Ottocento (il che è già sospetto). Evola non è il primo a compiere questa operazione. Sistemi chiusi si hanno nelle ideologie reazionarie, nel tomi­smo, nel monismo di Guénon, e via dicendo. Occorre però notare che questo carattere di sistema chiuso appartiene alla formulazione teori­ca e concettuale della tradizione: una formulazione che, dal puro punto di vista cronologico, avviene in epoca moderna. È un dato che conviene tenere a mente; ma intanto proviamo a chiederci: nella realtà delle culture tradizionali vive, nel loro modo di riflettere su se stesse, di formulare le idee fondamentali e vigenti cui riferirsi, è effettivamente presente questo carattere di chiusura e di ideologia? Le civiltà tradizionali, insomma, furono ideologiche e totalitarie? A esser prudenti si può rispondere che almeno non lo furono tutte, an­che se mi sfugge ora quale possa essere una civiltà tradizionale per­fettamente in regola con i requisiti richiesti dai tradizionalisti.

Il sistema concettuale tradizionalista – e prendo quello di Evola perché è l’esempio più perfetto di questo genere – è chiuso e globale perché non tratta di una sola cultura, ma di tante culture tradizionali; in via di principio, di tutte le culture tradizionali: della Tradizione in genere e categoria. Però, se ci spostiamo nella realtà delle cul­ture non moderne, ci si pongono dinanzi tante culture che non sono unificate da uno schema teorico. Dentro una cultura tradizionale viva, non cogliamo tanto l’unità di fondo con le altre culture, ma la sua organicità, la sua intrinseca complessità, il suo corpo di tradizio­ne singola e ben differenziata dalle altre. Per fare un solo esempio: è evidente che esiste un’unità di fondo tra le lingue indoeuropee, che è stata riscontrata e ricostruita in modo dettagliato dai linguisti; però, quando queste lingue erano parlate, la realtà immediata mostrava la complessità del latino e accanto la complessità del greco: due com­plessità diverse tra loro, al punto che il parlante latino non capiva il greco e viceversa. Però ciascuno dei due sentiva il corpo della sua lin­gua come un’unità organica, nella quale non avrebbe potuto distin­guere gli elementi indoeuropei da quelli nati chissà dove e chissà quando. Né la cosa cambia se ci si sposta sul piano dei riti, o se si cerca di rintracciare l’unità delle tradizioni all’interno di una storia religiosa fatta di riformatori e polemiche teologiche a non finire. Che a posteriori uno studioso sveli la presenza di identità di strutture tra il mondo greco e quello latino, può significare tante cose, ma non implica affatto che sia legittimo prendere una cultura e separare, come se fossero pezzi assemblati, alcuni elementi da altri, imponendo dall’esterno a questa cultura una differenza tra ciò che vi si considera tradizionale e ciò che vi si considera moderno.

Poi bisogna tener conto che una cultura cambia nel tempo: ciò che essa è nell’anno 300 a.C. è completamente diverso da ciò che è nel 100 a.C. Dunque, per cercare strutture che coincidano con altre culture occorre prima ridurre a un sistema unico le fasi storiche attra­versate da ogni cultura e tutte le sue componenti interne: bisogna estrapolare gli elementi che, dal 300 al 100 a.C. sono rimasti identici e costanti e attribuire loro un significato speciale, con quella che, a tutti gli effetti, è una valutazione arbitraria. E questo si­gnifica prescindere dalla realtà di fatto che una determinata cultura è, di per sé, un si­stema aperto al cambiamento: tant’è che è cambiato (si pensi a quan­to cambia Roma tra queste due date). Ora, il puro fatto che la cultura cambia, obbliga a pensare che la sua tradizionalità (l’aspetto per il quale è tradizionale) è problematica. Cioè, tolto il momento primor­diale dell’età aurea abbiamo che ogni cultura, in ogni momento stori­co risulterebbe parzialmente tradizionale. Ma questo impedisce all’interpreta­zione evoliana di dire in che cosa è tradizionale, secondo un punto di osservazione ad essa intrinseco. Possiamo dire in che cosa è tradizionale una certa cultura, in un certo periodo, solo se la guardiamo dall’ester­no (quale esterno, se i principi della Tradizione sono stati desunti, per astrazione, proprio dalle culture storiche?). Il che significa che si finisce per parlare di un fantasma: si potrebbe cadere nei suoi equivo­ci e, ad esempio, dare credito ai conservatori che, nel medioevo, ritenevano tradi­zionale il romanico e moderno il gotico. Oppure costruire un’epoca che non esiste, parlare del pensiero indiano accantonando, per convenienza interpretativa, le sue correnti materialiste, o immaginare una civiltà dalla quale si sono previamente scartati gli elementi che non piacciono (per esempio, rapportare il taoismo a una sua originaria natura solare contro le «degenerazioni» lunari e telluriche, quando invece le fonti storiche sembrano evidenziare esattamente il contrario). Il tradiziona­lista finirà col parlare di un medioevo incarnato da Tommaso, e privo di Ockam; o difenderà l’autentico spirito medievale di Ockam, contro la barbara razionalità tomista; ma l’uno e l’altro parlerebbero di medioevi inesistenti, perché nella storia vera si lottava a colpi di scomuni-che tra discepoli di Tommaso e discepoli di Ockam. Il tradizionalista ha una visione teorica del mondo tradizionale; non parla della tradizione reale, ma di una sua interpretazione concettuale conforme alla definizione astratta de «la» Tradizione. Questo non significa che si tratti di un’interpretazione necessariamente falsa; ha, invece, il valore di tutti gli schemi concettuali: è teoria.

Con quale criterio si ottiene questa concezione teorica della Tra­dizione? Non si tratta semplicemente di difendere «ciò che c’era pri­ma», perché questo «prima» è contaminato: contiene gli elementi che «dopo» si ritroveranno in pieno vigore nell’età moderna: bisogna pur scegliere se aveva ragione Tommaso o Ockam. Dunque, si tratta di difendere nel «prima» ciò che non ha rapporti con l’«ora», con il pre­sente, che è vissuto come modernità vigente. Bisogna risalire al pas­sato privato dei segni premonitori della modernità. Sicché il crite­rio per definire la tradizione è negativo: Tradizione è ciò che non è moderno, ciò che non siamo noi, oggi. Il che significa aver escluso arbitrariamente che il moderno possa essere tradizionale! E questo non è un paradosso: per qualun­que tradizionalista, Socrate è moderno.

A questo schema, Evola aggiunge il metodo comparativo, e per questo dà una visione più complessa e riuscita. Soprattutto, la com­parazione dovrebbe essere garantita dal possesso iniziatico della sa­pienza, susseguente a una tecnica. Ma questo è aleatorio. Anche al­l’interno delle tecniche va fatta una distinzione tra i metodi che arri­vano a certi risultati e i metodi che non ci arrivano. Perché ha valore ciò che si sa a seguito del tirocinio da sciamano, e non ha lo stesso valore ciò che si sa a seguito del tirocinio da calzolaio? Lo zen e molte scuole dell’induismo garantiscono che si può arrivare alla sapienza anche facendo il calzolaio. Dunque la sapienza non è affatto garantita dalla scuola di appartenenza, ma dal valore della persona che si esprime come sapiente. Cioè giudichiamo della sapienza di un tale a posteriori rispetto alle parole che pronuncia, e per il solo fatto che queste parole concordano con quanto è contenuto nel patrimonio tra­dizionale. E siccome questo patrimonio tradizionale è fatto a sua vol­ta di parole e di credenze, l’unico metodo per distinguere la sapienza e la tradizione dalla modernità e dalle idee personali è la comparazio­ne. La quale comparazione è un metodo a posteriori. E a questo pun­to è chiaro anche che è un metodo moderno. Siamo al punto chiave.

Quando si è dentro una cultura tradizionale, un mondo tradizionale, questo mondo è vigente. L’uomo che viveva nel VII se­colo a. C. a Roma, viveva dentro un mondo vigente. Voglio dire che per lui era presente una sola cultura vigente. Questa vigenza è un ele­mento oggettivo che descrive la relazione tra l’uomo e la sua cultura. L’uomo vive sulla scorta di alcune credenze che gli sembrano certe e che non pone in discussione; ha un’immagine del mondo che non percepisce come «idea», ma come la realtà stessa. Per esempio, i fi­losofi medievali riflettevano sul problema di Dio chiedendosi chi fosse, e non se esistesse: era ovvio che esistesse, era un elemento vi­gente nel loro mondo, era per loro la realtà stessa. Naturalmente, non è detto che questa credenza fosse vigente per tutti; ma nel breve periodo l’esistenza di un ateo, a titolo individuale, non scalfiva la vigenza del mondo cristiano medievale. Se oggi il fiume straripa, noi mettiamo mano alle ruspe, e non ci sognia­mo di interrogarci circa l’esistenza di un dio del fiume: per noi è vi­gente la concezione scientifica dell’acqua e dei fenomeni atmosferici, e perciò non la mettiamo in questione, la prendiamo come la realtà stessa, e, dovendo andare in aereo, chiediamo le previsioni del tem­po, ma non il parere dell’aruspice. Orbene, per l’uomo che viveva a Roma nel periodo monarchico c’era una cultura, un mondo vigente. Ed era una cultura sola: se fossero state due, non sarebbero state vi­genti. Vigente significa che l’uomo vive da questa cultura e di questa cultura: sa a che cosa attenersi nelle circostanze normali della sua vita. Detto in altre parole: non ha il problema di scegliere i valori che fondano la sua esistenza.

Ora accade che la tradizione, come tipo di vita conservativo o ac­cumulativo, nel miglior senso del termine, consente una crescita. È facile esemplificarlo restando sul piano personale: un contadino che sappia conservare una parte di ciò che guadagna, lascerà ai figli una certa sostanza, con la quale essi potrebbero permettersi di trasferirsi in città e avviare un’attività commerciale. Si noti bene che questo cambiamento quantitativo, inevitabile prodotto di ogni tradizione, è contemporaneamente un cambiamento qualitativo. Prima il contadino non poteva scegliere se restare o no in campagna; ora i suoi figli possono scegliere. Hanno il problema di determinare la vita che faranno, attuando l’una o l’altra opzione. E dovranno domandarsi chi sono realmente e che cosa vogliono fare.

Ora spostiamoci sul piano sociale: il mutamento è analogo. Capi­ta che una cultura tradizionale entri in contatto con un’altra, diversa, eppure anch’essa antica e tradizionale: Roma incontra la Grecia. È un luogo comune della storiografia scolare: la Grecia vinta sconfigge Roma sul piano della cultura. Ciò che accade è che, nell’ambito di una stessa società, ora ci sono due culture, due mondi, due modi di vivere: quello tradi­zionale e quello nuovo. Dunque, il mondo tradizionale non è più vi­gente, e si può seguire l’uno o l’altro. Ma questo è il meno. Perché non si tratta di un arricchimento quantitativo di culture; anzi, semmai abbiamo una perdita di certezze. Ora il singolo deve scegliere. Deve decidere a quali criteri ispirare la sua vita, a quali idee attenersi: deve sapere che cosa dà significato alla sua vita e, in ultima analisi, chi ha ragione tra tanti modi di vedere le cose, chi dice la verità: che cosa è la verità.

Ortega ha segnalato che l’incontro con la Grecia introduce a Roma la modernità: il circolo degli Scipioni. Ma per chi sceglie il modo nuovo, evidentemente, non aveva più senso il vecchio. E tutta­via, prima di scegliere il nuovo – o insieme alla scelta del nuovo – ha dovuto prendere posizione sul vecchio: ecco il cambiamento qualita­tivo, strutturale. Quando la tradizione è vigente, non c’è spazio per prendere posizione su di essa, per metterla in discussione. Quando la tradizione è vigente, non esiste tradizionalismo! Quando il mondo vigente, la cultura vigente, non c’è più, allora la condizione dell’uomo è cambiata: non si hanno più credenze previe e indiscusse, ma bisogna decidere in cosa credere. E per farlo, bisogna valutare.

Si potrebbe scegliere il nuovo: la modernità. Però, a partire dalla stessa situazione di assenza di credenze previe vigenti, e di valutazio­ne dei valori, si potrebbe anche scegliere il vecchio: Catone il censo­re e il mos majorum che, si badi, resta tanto vero quanto lo era o non lo era prima; solo che non è più vigente. Scipione sceglie di attenersi al nuovo; Catone sceglie di attenersi al vecchio; entrambi partono da un’identica condizione di perplessità, nella quale debbono decidere che cosa ha valore e che cosa non lo ha; entrambi hanno bisogno di un metodo per procedere in questa discriminazione, e debbono inventare il metodo, non potendo trarlo da una cultura non più vigente, che forse non aveva conosciuto mai questo problema: il che equivale a dire che entrambi, Scipione e Catone, scelgono, dopo averci ragionato sopra. Ora, se si accetta che questo ragionare senza principi assoluti previ è la definizione della modernità, allora risulta che entrambi sono moderni. È vero che Catone sceglie il sapere antico. Ma questa è una conclusione. Mentre prima la tradizione era vigente, e ci si viveva dentro, era la premessa, ora la tradizione è stata, per così dire oggettivata, trasformata in problema, analizzata alla luce di metodi razionali (estranei a tale tradizione), e si e giunti infine alla conclusione che essa ha valore: dopo averci ragionato, Catone dice che era meglio prima. Ma il punto di partenza sta nel dubbio sul valore di questo «prima», dubbio che si pone «dopo» il contatto con altre culture che ne hanno svelato la natura non assoluta. E il «prima» a cui ci si riferisce è l’astrazione concettuale del mondo antico senza i germi della novità.

Crollo delle credenze sul piano oggettivo, perplessità e dubbio su quello soggettivo, movimento della ragione per uscire dal dubbio partendo da se stessa, teoria concettuale come ricostruzione delle certezze perdute: questa è esattamente la modernità, e in questo sen­so Catone e Scipione sono moderni. Come Evola e Comte.

È stato fuorviante contrapporre progressismo a tradizionalismo, perché si tratta di due opzioni interne alla modernità; e a sua volta la modernità è sempre un’evoluzione della tradizione, una fase storica prodotta dalla tradizione. Se si vuole, sarà la prova massima che una tradizione storica deve affrontare, ma non può esserne la negazione: Cartesio non è la negazione della filosofia medievale, ma il risultato di una speculazione che ricomincia da Boezio. Fondate esclusiva­mente sulla ragione, le due modernità – quella progressista e quella reazionaria – non potevano non contrapporsi. L’esaltazione del nuovo in quanto nuovo, e del vecchio in quanto vecchio, sono due astrazioni che hanno creato mondi contrapposti, separando dimensioni essenziali della vita umana reale, unitaria, dove c’è sempre qualcosa da conservare o da innovare. Entrambe hanno coltivato l’utopia di una perfezione che non appartiene all’uomo, e che ha un inevitabile risvolto totalitario: una volta raggiunta la perfezione desiderata, sia rivoluzionaria, sia restaurativa, la storia finirebbe, e non resterebbe altro che imporre il sistema alle nuove generazioni che cercano la loro via e la loro originalità. E se ora saltiamo alla nostra epoca moderna, quella che ci è più vicina, quella che non si decide a morire, vediamo che le due esaltazioni ideologiche si sono combattute senza tregua, senza mai produrre una situazione sociale in cui l’uomo si sentisse libero e a suo agio. Ciò che sempre hanno prodotto è l’idea di uno stato genitore, perennemente pronto a spiegare la verità su qualunque cosa, terribilmente noioso e incapace di comprendere gli slanci creativi o le nostalgie che ci spezzano il cuore. Un mondo a misura d’uomo non è stato concesso. Si è sempre chiesto di aderire prima a una definizione dell’uomo, e si è avuto paura di lasciare la libertà di definirsi liberamente. Eppure questa libertà è l’essenza della persona umana: l’ente che determina chi sarà.

Evola è l’altra faccia della modernità, con le sue ragioni. Il che si può intendere in molti modi, tra cui questo: Evola costruisce il suo pensiero con gli scarti del mondo moderno, che sono brandelli di vita umana reale. Chiaro che contemporaneamente scarta altri brandelli altrettanto rea-li, cui il progressismo aveva dato voce. E con Evola bi­sogna fare i conti.

Viviamo in una fase storica in cui ciò che la visione progressista aveva accantonato si sta prendendo una crudele rivincita. C’è un tri­balismo tornato in auge, che reclama la sua modernità, appoggiato da un enorme seguito popolare. Abbiamo avuto una guerra tribale alle porte di casa, e altre, altrettanto tribali, ci giungono con i loro echi at­tutiti, non tanto da una censura ideologica, ma dall’imbarazzo di af­frontare concettualmente la loro attuale inattualità. E se come guerre hanno le loro sporche ragioni economiche, come tribali dimostrano la forza dell’attaccamento all’etnia, alla stirpe, all’identità culturale. E in fondo stiamo entrando nella cosiddetta post-modernità senza aver avuto la possibilità di vivere pienamente e senza riserve una condizione di modernità vera. Ma fare i conti con Evola non significa diventare tribalisti. Forse può servire per avviarsi in una direzione veramente contemporanea: la capacità di convivere con tutte le culture, senza esclusivismi, senza ricette valide per tutti i casi, e insomma senza razzismi.

Ho scritto quest’ultimo capitolo a Valencia, dove si è deciso di fare professione di fede catalana: le scritte sui muri invocano l’espul­sione di yanquis e spagnoli, i testi ufficiali della Comunità Autonoma sono bilingue, e il vigile vi multa in un catalano, o valenciano perfet­tamente inventato; e se l’importo della multa è in linea con quello delle altre nazioni europee, il governo regionale finanzia una dotta Commissione per stabilire le norme dell’ortografia e l’accentazione delle parole. Colleghi della «Facultat de Filologia» (accentato non so come, in attesa dell’ufficial decreto) mi assicurano che mai si è parla­to catalano a Valencia. Trovo tutto ciò immensamente cretino. E non vedo ragioni per cui il rispetto a una cultura debba condurre all’idea dello stato etnico o razziale, né perché la pluralità delle culture debba essere conflitto di culture, a meno che non si applichi quel capolavo­ro di principio che dice: ognuno a casa sua. Se questo principio fosse stato applicato, saremmo ancora all’età della pietra, e chi volesse ve­dere quali sono i vantaggi di una tradizione vigente che rimane sem­pre allo stato puro e incontaminato, non ha altro da fare che guardare i popoli primitivi. Con tutto il rispetto per le loro culture, e la vergo­gna per l’uso del termine «primitivo», non mi pare che la loro civiltà possa reggere il confronto con il nostro periodo alessandrino, o con la civiltà metropolitana odierna. Non comprendo perché chi chiede rispetto per la sua cultura non comincia con il praticare questo rispet­to per le altre culture, quindi anche verso chi ama l’idea di una socie­tà a dimensione europea, ama l’universalità, e vuole intrecciare libere relazioni, libere convivenze, liberi scambi con i diversi. Un mondo di uguali nel sentire è noioso, e nel dire questo sento dentro di me la ricchezza potenziale della modernità. Il libro più conservatore che Evola ha scritto, Gli uomini e le rovine, si apre con una frase singolare. Vi si dice: siccome non c’è più una tradizione vigente, si pone a ciascuno il problema della scelta della tradizione. Ognuno può, e in un certo senso deve, scegliere la tradizione a cui ascriversi. Non è un self-service culturale: è modernità allo stato puro. Manca solo un passo per domandarsi: e perché non scegliere le condizioni presenti? e perché non scegliere lo spirito alessandrino?

Fare i conti con Evola non significa che ci mettiamo a tavolino e elaboriamo una bella sintesi tra il suo pensiero e quello di Comte. Il problema non è teorico. La modernità non si può né rifiutare né sce­gliere: è una struttura oggettiva della situazione storica. E, come mo­derno, Evola aveva le sue ragioni. Il problema è solo se ci troviamo oggi in una situazione storica nuova, la cui struttura oggettiva non è più identica a quella della modernità.

Ora, personalmente credo che si possa sottolineare un cambiamento. Nella fase tradizionale l’uomo non ha scelta: parte da una certezza e vive dentro un mondo che, magari, coincide con il suo sentire, ma è solo una cultura che si impone come assoluta. Nella fase moderna, ha scelta, ma non ha la certezza; tuttavia sceglie con passione, affidandosi alla sua ragione e ai suoi criteri. Ebbene, oggi non esiste un solo criterio per il quale metteremmo la mano sul fuo­co. Non è una questione di teoria intellettuale: ognuno ha fatto l’espe­rienza di quanto siano fallaci i suoi criteri e di quanti benefici possa­no venire da un criterio assurdo. Ci curiamo con la medicina omeo­patica, benché non sia scientifica, e non per una questione di igno­ranza, ma perché sappiamo che la scienza moderna è un’ipotesi come quella antica. La medicina omeopatica funziona: questa è una cre­denza sociale o una leggenda metropolitana: chissà? Perché funzio­na, è cosa che non ci interessa. Lo scienziato, attardato nei suoi asso­luti, dirà che non può funzionare, per il principio di Avogadro; il raf­finato teoreta potrebbe obiettare che il cosiddetto principio di Avoga­dro presuppone nientemeno che una concezione dell’essere che è ben lungi dall’essere evidente, ma la realtà è che viviamo in un mondo in cui tutte le culture ci sono contemporanee, ci sono davanti, con il loro valore, con le loro ragioni, e senza che noi si abbia un criterio oggettivo per discriminarle.

In questa Valencia, dove sostanzialmente mi sento a casa mia (anche a casa mia si sente il vento dello stupidario tribalista: a Trie­ste vogliono essere autonomi dal Friuli, e in Friuli vogliono essere autonomi dalla Venezia Giulia; l’unica internazionale in crescita è quella dei cretini) mi è capitato fra le mani un aureo libretto di Feye­rabend, che l’editore spagnolo ha intitolato ¿Por qué no Platón?, e scor-rendo deliziosamente da un capitolo all’altro (“Tesi a favore del­l’anarchismo”; “Il cammino verso una teoria della conoscenza dadai­sta”) vi trovo un vero e proprio manifesto di alessandrinismo. Tutto ci è contemporaneo: basta entrare in una libreria e rendersene conto; il settore catalano, o friulano, è solo un piccolo spazio tra i tanti, e forse non ci sarebbero stati libri in catalano o in friulano senza la ric­chezza e la molteplicità delle tradizioni, senza il loro dialogo. E Feyerabend dice: «Ammetto che tutte le culture, tutti i mezzi di co­municazione, tutte le opinioni hanno lo stesso diritto di esistenza. Un dibattito è… un intercambio culturale in cui le diverse influenze agi­scono liberamente in tutte le direzioni».

Tuttavia, la mancanza di un criterio oggettivo di scelta non signi­fica impossibilità di scelta, ma piuttosto pluralità di scelte; perché non si può fare a meno di decidere cosa fare, e allora bisogna ricorre­re a un criterio soggettivo. E questo ha immediatamente un duplice risvolto. I criteri soggettivi privi di senso cadranno a pezzi di fronte alla realtà, soprattutto se gli impediamo di imporsi in modo totalita­rio. E poi, se la scelta ha da essere soggettiva, sarà necessario che uno si chieda che cosa vuole: il che lo spinge a domandarsi chi è, a interrogarsi sul suo progetto vitale o vocazione.

Senza la modernità negativa dei tradizionalisti, questa ricchezza di culture sarebbe forse perduta: molto più radicalmente di Spengler, Evola ha infranto l’eurocentrismo, che era una presunzione razzista, ed ha aperto alle culture altre, che il progressismo ignorava. E tuttavia non è stata col­ta la creatività umana come fonte vera di tutte le culture. Ora la parola deve tornare alla persona, alla sua creatività perennemente alle prese col mistero del mondo, dell’esistenza e della vita. Né Evola né i suoi avversari lo hanno risolto.

Ha scritto María Zambrano: «Sono permanenti solo le vittorie che salvano il passato, che lo purificano e lo liberano… L’uomo anticipa sempre se stesso, se lo si guarda a partire dal presente; se lo si guarda dal futuro, trascina con sé e lo si vede ancora dipendere dal passato, da un passato assoluto. Perché in realtà il tempo fondamentale del­l’uomo, quello da cui parte e che lo rende spiegabile, è solo il futuro. E questo andare verso il futuro, convertito in voto, è stato la caratte­ristica dell’uomo occidentale. Lanciarsi in forma decisa e irrimedia­bile verso il futuro: la sua vocazione».

(1987)

Opere di Evola citate nel testo:

Fenomenologia dell’individuo assoluto, Bocca, Torino 1930.

Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano 1963.

L’uomo come potenza: i tantra nella loro metafisica e nei loro metodi di autorealizzazione magica, Atanor, Todi-Roma s. d. (1926).

Saggi sull’idealismo magico, Atanor, Todi-Roma 1925.

Il libro del principio e della sua azione, Mediterranee, Roma 1972 [1959].

Teoria dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma 1973 [1927].

L’individuo e il divenire del mondo, ed. di Renato del Ponte, Arthos, Carmagnola 1976 [1926].

E. Coué e l’agire senza agire, in «Bilychnis», XIV, 1925, vol. 25, 28-37 (poi in I saggi di Bilychnis, Ar, Padova 1970, 9-33, da cui si cita).

Introduzione alla magia quale scienza dell’Io, Mediterranee, Roma 1971 [1927-29], 3 voll.

Sul carattere della conoscenza iniziatica, in 9, I, 33-41 (pseudonimo Ea).

Il tema dell’immortalità, in 9, I, 156-65.

Sulla dottrina generale dei mantra, in 9, I, 364-72.

La purità come valore metafisico, in «Bilychnis», XIV, 1925, vol. 25, 335-363 (poi in Saggi di Bilychnis, cit., 35-65).

Immanenza e trascendenza, in 9, I, 402-3.

Aristocrazia e ideale iniziatico, in 9, III, 40-8.

Che cosa è la realtà metafisica, in 9, III, 123-32.

Sul sacro nella tradizione romana, in 9, III, 217-27.

La visione romana del sacro, in Diorama filosofico, ed. di Marco Tarchi, Europa, Roma 1974, 67-83.

La palingenesi nell’ermetismo medievale, in «Bilychnis», XIX, 1930, vol. 34, 173-190 (ora in Saggi…, cit., 67-112).

Americanismo e bolscevismo, in «Nuova Antologia», LXIV, 1929, fasc. 1371, ora in I saggi della Nuova Antologia, Ar, Padova 1970, 43-86, da cui si cita.

La Torre, ed. di Marco Tarchi, Il Falco, Milano 1977.

Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma 1969 [1934].

Sorpassamento del superuomo, in 18, 181-5.

Superamento dell’idealismo, in 18, 211-20.

L’equivoco dell’immanenza, in 18, 276-81.

Per la ricostruzione spirituale fascista, in 18, 153-61.

Intervista a «L’italiano», poi in Omaggio a J. E. per il suo LXXV compleanno, ed. di Gianfranco de Turris, Volpe, Roma 1973.

Metafisica del sesso, Mediterranee, Roma 1969 [1958].

L’arco e la clava, Scheiwiller, Milano 1971 [1968].

Introduzione a Lao-tze, Il libro del principio e della sua azione, Me­diterranee, Roma 1972 [1959; completo rifacimento de Il libro della via e della virtù, Carabba, Lanciano 1923].

Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Mediterranee, Roma 1971 [1932].

La tradizione ermetica, Mediterranee, Roma 1971 [1931].

Riscoperta del classicismo, in Ultimi scritti, Controcorrente, Napoli 1977, 134-5.

Lo yoga della potenza, Mediterranee, Roma 1968 [1949; rifacimento completo de L’uomo come potenza, cit. al n. 3].

Prospettive dell’aldilà, in Ricognizioni: uomini e problemi, Mediter­ranee, Roma 1974, 129-32.

La dottrina del risveglio, saggio sull’ascesi buddhista, Scheiwiller, Milano 1973 [1943].

“Neue Sachlickeit”: una confessione della nuova generazione nordi­ca, in «Rassegna Italiana», XVI, 1933, 315-24.

L’Operaio e le scogliere di marmo, in «Bibliografia Fascista», XVIII, 1943, 143-51.

L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Volpe, Roma 1974 [1960].

Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1970 [1961].

Gli uomini e le rovine, Volpe, Roma 1972 [1953].

Vie per una comprensione romano-germanica, in «Augustea», 1941, n. 15-16, 13-4.

Note circa il ritorno al medioevo, in «Vita Nova», VII, 1931, 946-60.

Il fascismo visto dalla destra, Volpe, Roma 1970 [1964].

Note

[1] Julius Evola, Fenomenologia dell’individuo assoluto, Bocca, Torino 1930, p. IX.

[2] ibid., pp. IX-X

[3] ibid., pp. XI-XII.

[4] J. Evola, Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano 1963, p. 29.

[5] ibidem.

[6] ibid., p. 30.

[7] J. Evola, L’uomo come potenza: i tantra nella loro metafisica e nei loro metodi di autorealizzazione magica, Atanor, Todi-Roma s. d. (1926), p. 5.

[8] id., Saggi sull’idealismo magico, Atanor, Todi-Roma 1925, pp. 22-3.

[9] id., Il libro del principio e della sua azione, Mediterranee, Roma 1972 (1959), p. 7.

[10] id., L’uomo come potenza, cit., p. 6.

[11] ibidem.

[12] ibidem.

[13] ibid., p. 7.

[14] J. Evola, Teoria dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma 1973 (1927), p. 1.

[15] ibid., p. 2.

[16] J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, ed. di Renato del Ponte, Arthos, Carmagnola 1976 (1926), pp. 38-9.

[17] id., Teoria dell’individuo assoluto, cit., p. 16.

[18] ibid., p. 15.

[19] id., L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 41. In verità, questo distacco è possibile solo per il pensiero astratto, ma in nessun caso può essere un dato di esperienza. Nell’esperienza l’io è sempre alle prese con qualcosa, con un non-io e, come giustamente vede Ortega y Gasset nel 1914, in Meditaciones del Quijote, io = io e la mia circostanza. Cfr. G. Ferracuti, «José Ortega y Gasset e il modernismo: Cento anni di Meditaciones del Quijote», Studi Interculturali, 2/2014, pp. 7-38; id., «“Il punto di vista crea il panorama”: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset», Studi Interculturali, 2/2015, pp. 96-118; id., Traversando i deserti d’occidente: Ortega y Gasset e la morte della filosofia, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2012, disponibile online <www.amazon.it/dp/B09HQZ8VR9>, id., L’invenzione del Nvecento: le Meditazioni sul Chisciotte di Ortega y Gasset e la nuova idea di realtà, Mediterránea, Trieste 2013, <www.amazon.it/dp/B08X532HDS>, id., José Ortega y Gasset: la libertà inevitabile e l’assente presenza del divino, Mediterránea, Trieste 2021 <www.amazon.it/gp/product/B08K562T2M>.

[20] J. Evola, Teoria dell’individuo assoluto, cit., p. 18.

[21] ibidem.

[22] id., L’individuo e il divenire del mondo, cit., p. 42.

[23] id., Teoria dell’individuo assoluto, cit., p. 28.

[24] ibid., p. 293.

[25] ibid., p. 38.

[26] ibid., p. 51.

[27] ibid., p. 64.

[28] ibid., p. 75.

[29] ibid., p. 97.

[30] ibid., p. 113.

[31] ibid., pp. 138-220.

[32] ibid., p. 252.

[33] ibid., p. 256.

[34] ibid., p. 271.

[35] J. Evola, «E. Coué e l’agire senza agire», in Bilychnis, XIV, 1925, vol. 25, pp. 28-37 (poi in I saggi di Bilychnis, Ar, Padova 1970, pp. 9-33, da cui si cita, p. 31).

[36] J. Evola, Introduzione alla magia quale scienza dell’Io, Mediterranee, Roma 1971 (1927-29), 3 voll., I, p. 9.

[37] id., «Sul carattere della conoscenza iniziatica», in Introduzione alla magia, cit., I, pp. 33-41, p. 34 (pseudonimo Ea).

[38] ibid., p. 36.

[39] ibid., p. 40.

[40] id., Introduzione alla magia quale scienza dell’Io, cit., I, pp. 171-4.

[41] id., Saggi sull’idealismo magico, cit., 75-87.

[42] id., «Il tema dell’immortalità», in Introduzione alla magia, cit., I, pp. 156-65.

[43] id., «La purità come valore metafisico», in Bilychnis, XIV, 1925, vol. 25, pp. 335-63 (poi in Saggi di Bilychnis, cit., pp. 35-65, pp. 50-1).

[44] ibid., p. 54.

[45] id., «Sulla dottrina generale dei mantra», in Introduzione alla magia, cit., I, pp. 364-72, p. 368.

[46] ibid., p. 370.

[47] ibid., p. 372.

[48] id., «Immanenza e trascendenza», in Introduzione alla magia, cit., I, pp. 402-3, p. 402.

[49] ibidem.

[50] ibid., 403.

[51] id., «Aristocrazia e ideale iniziatico», in Introduzione alla magia, cit., III, pp. 40-8, p. 42.

[52] id., «Che cosa è la realtà metafisica», in Introduzione alla magia, cit., III, pp. 123-32, p. 126.

[53] id., «Sul sacro nella tradizione romana», in Introduzione alla magia, cit., III, pp. 217-27, pp. 223-7.

[54] id., «La visione romana del sacro», in Diorama filosofico, ed. di Marco Tarchi, Europa, Roma 1974, pp. 67-83.

[55] id. Il cammino del cinabro, cit., p. 94

[56] ibid., p. 98.

[57] ibid., p. 99.

[58] ibidem.

[59] ibidem.

[60] ibid., p. 100.

[61] id., «La palingenesi nell’ermetismo medievale», in Bilychnis, XIX, 1930, vol. 34, pp. 173-90 (ora in Saggi…, cit., pp. 67-112, p. 77).

[62] ibid., p. 78.

[63] ibid., p. 82.

[64] id., «Americanismo e bolscevismo», in Nuova Antologia, LXIV, 1929, fasc. 1371, ora in I saggi della Nuova Antologia, Ar, Padova 1970, pp. 43-86, da cui si cita, p. 46.

[65] ibid., p. 48.

[66] ibid., pp. 52-3.