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Gianni Ferracuti: Evola, Jünger, e il realismo sociale (2015)

Evola, Jünger, e il realismo sociale
Gianni Ferracuti

 

 [«Evola, Jünger, e il realismo sociale» è un saggio pubblicato come «Jünger, il realismo sociale e la “terza navigazione” di Evola», in Luigi Iannone (ed.), Ernst Jünger, Solfanelli, Chieti 2015, pp. 108-26, poi in G. Ferracuti, L’invenzione del tradizionalismo», disponibile online]

Nella prima fase della sua attività, verso la metà degli Anni Dieci e nel decennio successivo, Evola si trova in una posizione singolare e, in un certo senso, contraddittoria: da un lato è perfettamente integrato nell’avanguardia culturale europea (soprattutto mitteleuropea), come pittore, poeta e teorico dell’arte contemporanea; dall’altro lato, vive nel contesto culturale italiano, provinciale e arretrato, dominato dall’idealismo e da forme residuali della cultura cattolica ottocentesca. Negli Anni Venti, la filosofia idealista è ormai una scuola in disarmo, che nel resto dell’Europa viene rapidamente smantellata: le Idee di Husserl sono pubblicate nel 1913, le Meditazioni sul Chisciotte di Ortega y Gasset risalgono all’anno successivo, in Francia si sviluppa un pensiero personalista che, nella sua componente cattolica, è ben più corposo delle datate prospettive ancora in auge in Italia, spesso stantie ripetizioni del tomismo, o delle svolte reazionarie alla Gemelli.[1] Mentre Evola lavora alla Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto, Heidegger lavora a Essere e tempo (1927), e Ortega ha da alcuni anni pubblicato Il tema del nostro tempo (1923); la rivista Ur e la Revista de Occidente (1924), sono contemporanee per quanto attiene alle date di pubblicazione, ma appartengono a due epoche diverse, per quanto attiene al contenuto.

L’elemento che induce Evola ad impantanarsi per qualche anno nel labirinto idealista è, a mio parere, un tema che apparteneva proprio all’avanguardia artistica, in parte della sua generazione, ma in maggior misura della generazione precedente la sua. Il variegato mondo dell’arte nuo-va, nato a partire dalla rivoluzione estetica avviata in Francia con Baudelaire, Gautier, Flaubert…, era fortemente ostile alla modernità borghese, al suo razionalismo, al positivismo, cui opponeva un marcato interesse per lo spiritualismo, per le tradizioni extraeuropee, per forme di conoscenza e realizzazione interiore alternative, in parte già recuperate dal romanticismo, con la mediazione degli interpreti idealisti.[2] Si tratta, con una certa frequenza, di un calderone in cui trovano spazio elementi di vario valore, a volte contraddittori: spiritismo, teosofia, scritti della Blavatskij, ma anche le prime traduzioni dei testi tradizionali delle religioni orientali, alcuni dei quali poi ritradotti da Evola in italiano. Vero è che questo vago spiritualismo era profondamente contaminato dalla filosofia idealista (Schelling, ad esempio); tuttavia, nella reinterpretazione dell’arte nuo-va subisce una rapida purificazione grazie a studi rigorosi che eliminano l’influenza della filosofia europea nello studio delle culture altre, e aprono la prospettiva dell’approccio interculturale.[3] Disgraziatamente, in Italia questa evoluzione in senso post-idealista e post-romantico non si diffonde e, a parte pochi intellettuali, abbastanza emarginati dal regime che si instaura nel 1922, la cultura italiana resta saldamente legata a una parodia del pensiero ottocentesco.

In tale contesto, ciò che consente a Evola di sganciarsi dall’idealismo e iniziare una «seconda navigazione» è l’incontro con l’opera di René Guénon e con la sua nozione di tradizione.[4] Fino ad allora, per Evola, tradizione significava esclusivamente tradizione iniziatica, cioè la trasmissione diretta, all’interno di una scuola, di saperi e tecniche operative, fatta da maestro a discepolo – qualcosa che egli riteneva possibile estrapolare dal suo contesto originario e rendere compatibile con il contesto idealista. Con la definizione di un mondo della tradizione, attraverso Guénon, Evola riesce a mettere a fuoco tutto il suo sistema di pensiero e a prendere le distanze dall’idealismo; la tradizione diventa una chiave di lettura e permette di discriminare tutto ciò che, non essendo con essa compatibile, risulta moderno. Vero è che prendere le distanze dall’idealismo non significa automaticamente liberarsene: in fondo, tutta la seconda parte di Rivolta contro il mondo moderno non è che una fenomenologia nel senso idealista del termine. Inoltre rimane indeterminato (e resterà sempre vago) il rapporto tra il mondo dei valori metafisici, a cui la tradizione riconnette il mondo storico, e questa stessa realtà storica nella quale l’uomo è chiamato ad agire, restando relativamente libero rispetto a tali valori (che in effetti abbandona con l’avvento della modernità).

Nella sua interpretazione molto libera di Guénon, Evola introduce, a mio parere, un elemento di grossa novità, che viene spesso lasciato in secondo piano o accantonato, come se fosse scontato e ovvio, ed è nientemeno che l’idea di modernità.

Ho detto or ora che quasi tutti gli artisti decadenti o avanguardisti provavano avversione per la modernità borghese: questo aggettivo borghese è essenziale e ineliminabile. In Baudelaire e Gautier, padri nobili della rivoluzione artistica che si manifesta poi come decadentismo, moderni-smo, simbolismo, avanguardie…, la modernità non è una categoria metastorica, ma è semplicemente sinonimo di novità: il nuovo, che la società produce in maniera spontanea e inevitabile, è eterogeneo, disuguale, e solo attraverso una selezione può configurare una forma di vita. Ora, nel corso della prima parte dell’Ottocento, le novità si susseguono in maniera tumultuosa: le fabbriche, l’illuminazione delle vie cittadine, i mezzi di trasporto veloci, le invenzioni… sconvolgono ritmi e abitudini di vita vecchi di millenni: in questa fase emerge il borghese come nuovo tipo umano destinato a governare l’epoca che si annuncia, e l’ascesa della borghesia verrà identificata con l’avvento della modernità per antonomasia. Ma questo collegamento tra un ceto sociale e un’epoca storica era considerato da molti una semplice pretesa.

Baudelaire, uno degli spiriti più lucidi del suo tempo, da un lato chiede ai borghesi di non restare chiusi alla formazione culturale; dall’altro invita gli artisti a una rappresentazione della vita moderna, per coglierne la peculiare bellezza e, attraverso un accurato lavoro interpretativo, coordinarla con la tradizione: vede con chiarezza che la forma di vita della modernità borghese è una fase all’interno del ciclo vitale di una cultura, e la sua opposizione alla tradizione è relativa, non assoluta. Ciò apre la prospettiva di un superamento della forma borghese di modernità, che è cosa ben diversa da un’opposizione preconcetta alla modernità, cioè al nuovo in quanto tale: il nuovo in quanto tale non può essere predeterminato, e non si può pre-giudicarlo. Le pretese della borghesia si fondano sull’accettazione di concezioni evoluzioniste, come l’idealismo o il progressismo, con il suo approdo positivista: è proprio la critica di queste grandi costruzioni ideologiche a rendere relativa la cultura borghese e ad aprire la possibilità di un’epoca post-borghese. Ed è ovvio che questa epoca, essendo nuova, avrà anch’essa un carattere di modernità, e dovrà prendere posizione rispetto al passato tradizionale.[5] Evola segue, invece, una via diversa e trasforma modernità e tradizione in due categorie metastoriche, il che rappresenta un problema.

Non c’è alcuna difficoltà a pensare che la tradizione, intesa come trasmissione di saperi e pratiche, riconnetta l’umano a una sfera metafisica, a un divino rivelato, come si afferma in ogni religione; ma se l’origine è non umana, la trasmissione è un atto storico compiuto dall’uomo e, nel tempo, la società può decadere o degenerare. Questa decadenza produce – chiamiamolo così – il non-tradizionale, cioè una condizione di distacco dalla tradizione o di occultamento dell’orizzonte metafisico. Se questa condizione, puramente negativa, viene caratterizzata in positivo, cioè come una categoria metastorica, come qualcosa che avviene obbedendo a una legge (la dottrina degli yuga, dall’età dell’oro all’età ultima), il non-tradizionale non è più pensabile come un’assenza, una mancanza di tradizione, ma è in positivo una condizione che si realizza nella storia in virtù di un principio che non appartiene alla storia stessa. E questo è un problema teorico grave: l’essenza metastorica della modernità implica una sua dimensione metafisica. In ambito cristiano, la figura del diavolo rappresenta un principio operatore del male, dell’anti-tradizione, che, pur essendo esterno, per così dire, alla storia, è subordinato al divino e può operare solo nei limiti concessi dal divino stesso, in un quadro che garantisce sia la libertà umana sia un ordine provvidenziale del cammino storico. Ma fuori dall’ambito cristiano, il principio negativo, antitradizionale, cos’è? Tanto l’azione provvidenziale quanto quella diabolica hanno carattere personale (il diavolo è persona); invece Evola suppone che l’influenza metastorica nel cammino umano sia costituita da processi oggettivi: è chiaro che l’anti-tradizione (la modernità) ha comunque, per lui, un’indegnità morale ed è illegittima: il problema sta nello spiegare perché è illegittima.

L’opposizione alla modernità borghese secondo la linea indicata da Baudelaire, non avendo dato alcun valore categoriale alla modernità, teorizza abbastanza agevolmente l’uscita da una fase storica della cultura europea attraverso un superamento: è ciò che negli Anni Settanta del Novecento, sulla scorta di Lyotard,[6] si indicherà con l’infelice termine di post-moderno, post-modernità, anche se l’operazione di critica della modernità borghese viene già realizzata compiutamente nei primi decenni del Novecento. Poco dopo la svolta del secolo, novecentismo, è il termine usato per indicare l’inizio di una fase nuova (Ortega y Gasset si definisce «per nulla moderno e molto XX secolo»), caratterizzata dal superamento delle contrapposizioni tipiche dell’Ottocento: tramonto del positivismo e del razionalismo, rivoluzione scientifica, abbandono dei grandi sistemi ideologici che pretendono di racchiudere l’universo in uno schema razionale, superamento della fase moderna della filosofia, consolidamento delle discipline e delle metodologie di studio delle culture extraeuropee, sviluppo di nuove tecniche economiche e nuove prospettive sociologiche, esigenza di superamento della frattura classista del corpo sociale, causata dalla borghesia, attraverso il riferimento a ideali di giustizia sociale, redistribuzione delle ricchezze, riorganizzazione delle unità produttive e della proprietà… Tutto questo non è compatibile con la singolare concezione de la modernità, una modernità unica, che attraverserebbe l’intera storia umana, e che comprenderebbe Socrate, il rinascimento, il barocco, l’illuminismo, Hegel, Marx e la psicanalisi, tutti unificati da un luciferino furore anti-tradizionalista! E basta chiedersi dove Evola abbia trovato la possibilità di costruire questo mostro, per avere immediatamente la risposta: l’ha presa dal pensiero cattolico. L’idea di una contrapposizione tra la modernità e la tradizione si sviluppa nel tradizionalismo cattolico dell’Ottocento e arriva al Novecento con figure come quella di Agostino Gemelli. Si può discutere se quest’idea funzioni all’interno di una visione cattolica; è invece certo che non funziona all’interno del sistema che Evola sta elaborando negli Anni Trenta.

In questo decennio, però, il problema rimane ai margini, quasi inavvertito. Il tradizionalismo elaborato da Evola ha una forte componente politica (su questo punto in netto dissenso con Guénon), ed Evola è convinto che il regime fascista, pur con tutti i suoi difetti, possieda elementi che, previa rettifica e reindirizzamento lungo una direzione più seria, possano ricondurre la società a un ordinamento organico, in linea con i valori gerarchici, comunitari, antiborghesi del pensiero tradizionale (e in questa valutazione si trova in buona compagnia, visto che molti intellettuali europei, e non dei minori, la condividono). Pertanto, negli Anni Trenta, può legittimamente pensare che la partita con la modernità non sia affatto conclusa, ed anzi sia tutta da giocare. Ma nel dopoguerra, quando il regime è crollato e non vi è alcuna possibilità che rinasca dalle sue ceneri, quando è chiaro che nei processi storici agiscono altre forze, quando si profila un’organizzazione del mondo irriducibile a tutti i modelli precedenti, ecco che diventa esplosivo il problema di cosa fare della, con la e nella modernità. È questo il momento in cui Evola si ricorda di alcune tematiche anticipate molti anni prima da Ernst Jünger. E, accantonando di fatto la sua questione metafisica irrisolta, comincia a ragionare sul presente, inteso, sulla scorta di Nietzsche, come età del nichilismo compiuto. Il nichilismo compiuto è un dato di fatto; il problema è come attraversarlo, superarlo, o quantomeno costruire la propria vita dentro di esso: ogni altra questione diventa astratta rispetto alla problematica esistenziale.[7] In questo senso, si può dire che il problema di definire lo statuto metafisico de la modernità in Evola non si è risolto, ma si è dissolto: si è aperta la possibilità di una «terza navigazione».

La riflessione che Evola compie nel secondo dopoguerra sembra, dunque, avere come primo movimento un ritorno all’indietro, come se si dovesse retrocedere a un bivio nel quale si era scelto un cammino, e per ciò stesso se ne erano esclusi altri. Questa impressione mi viene suggerita dal significativo ritorno in Cavalcare la tigre di un testo che aveva letto molti anni prima – Frank Matzke, Jugend bekennt: So sind Wir! (P. Reclam, Leipzig 1930). Evola lo aveva recensito nel 1933, «Neue Sachlickeit»: una confessione della nuova generazione nordica.[8]

Nella recensione si considera di particolare importanza la rivaluta­zione dell’oggettività, della freddezza, di un atteggiamento di distanza rispetto a ciò che è strettamente umano, sentimentale e romantico.[9] Contro tali tendenze passionali, si propone di andare «incontro alle cose in tutta la loro freddezza e durezza facendo tacere l’anima e non avendo occhio che per ciò che è reale»,[10] seguendo un ideale di autodominio, il solo che possa esser fatto valere in riferimento al­l’uomo moderno, consistente in una «liquidazione di ogni compromesso tra le cose e l’uomo: purificare le cose dall’umano».[11] Ciò equivale a recuperare un modo di essere austero e virile, che si manifesta non con la soppres­sione della sensibilità, ma con uno stile e una sensibilità diver­si: «Abbiamo anche noi [è Matzke che parla, citato da Evola] una sensibilità, ma essa non si accende più dinnanzi ai sentimenti degli altri, essa si accende solo dinanzi alle cose reali e dinanzi a ciò che nell’uomo stesso è reale, elementare».[12] In tal modo, la natura di­venta «il grande, grande mondo nel quale i panorami di pietra e di acciaio delle metropoli, le vie rettilinee senza fine, le selve di gru dei grandi cantieri stanno allo stesso piano che le foreste immense e soli­tarie e il cui senso austero in nessun istante abbandona l’uomo».[13]

Tornerò tra breve su Matzke, parlando di Cavalcare la tigre. Negli Anni Quaranta Evola aveva dedicato anche una recensione a Jünger, L’operaio e le scogliere di marmo,[14] dove manifestava qualche perplessità circa Der Arbeiter: «Una chiaroveggenza lo pervade, superiore di certo a quella del periodo di Der Arbeiter, adeguata alla serietà di questi tempi». In effetti, verso il testo di Jünger Evola sembra avere costantemente un atteggiamento ambiguo. Nel Cammino del cinabro ne parla come di un testo che aveva attirato la sua attenzione, soprattutto per la tematica della guerra moderna e per godere Jünger «di un particolare prestigio negli ambienti ad orientamento nazionale e combattentistico figurando come uno degli esponenti della “rivoluzione conservatrice”»:[15]

Il punto di partenza del pensiero dello Jünger era che nella guerra moderna si scatena l’elementare (il termine è da prendersi come quando si parla delle forze elementari della natura), l’elementare legato al materiale, cioè a un insieme di mezzi tecnici di estrema potenza distruttiva («battaglie del materiale»). È come una forza non-umana svegliata e messa in moto dall’uomo alla quale il singolo come soldato non può sfuggire: deve misurarsi con essa, farsi strumento della meccanicità e in pari tempo tenervi testa: spiritualmente, oltre che fisicamente. Ciò è possibile solo rendendosi capace di una nuova forma di esistenza, forgiandosi come un nuovo tipo umano che proprio in mezzo a situazioni distruttive per ogni altro o sappia cogliere un senso assoluto del vivere. A tanto pero è necessario un completo superamento del modo d’essere, degli ideali, dei miti, dei valori e, in genere, di tutta la visione della vita propria al mondo borghese.[16]

Di fatto, la tematica dell’Operaio consiste nell’estendere all’intero mondo contemporaneo, dominato dalla tecnica, alcune riflessioni e atteggiamenti esistenziali suscitati dall’esperienza della prima guerra mondiale, in una prospettiva marcatamente politica. Constatato il crollo degli ordinamenti sociali preesistenti, e l’impossibilità per l’individuo di vivere la propria vita fuori dal mondo contemporaneo, sorge il problema di collocarsi al suo interno in modo attivo, cercando di dominare i processi anziché subirli. Ciò richiede un nuovo atteggiamento esistenziale o, come dice Evola, un nuovo tipo umano, che assuma il mondo della tecnica come ponte «verso un superamento di tutto ciò che è semplicemente individuale, verso una nuova impersonalità attiva, verso un “realismo eroico” per via del quale né l’edonismo né lo stesso eudemonismo siano più i moventi essenziali dell’esistenza».[17]

Si parla, al riguardo, di un nuovo realismo che sostituisca la mentalità borghese, e che dovrebbe caratterizzare la figura dell’Operaio (Arbeiter). Evola considera infelice questa denominazione data al nuovo tipo umano, poiché il tema trattato non riguarda la classe sociale dell’operaio dell’industria moderna, il che è vero, ma si tratta di un’affermazione che dovrebbe essere molto sfumata. È vero che l’Arbeiter non è il proletario, ma è anche vero che viene definito attraverso un ampliamento della figura dell’operaio industriale e nella prospettiva di una reinterpretazione del socialismo (molto vicina al nazionalbolscevismo di Ernst Niekisch): i tratti di asceta e di guerriero, che Jünger gli attribuisce, vanno intesi metaforicamente, senza alcun riferimento a un pensiero religioso o ad un combattimento propriamente detto. Scrive Evola:

Nel suo libro lo Jünger considerò l’epoca attuale come una epoca di transizione (miscuglio di museo e di cantiere), prospettò vari lati della futura èra dell’«operaio», anche per quel che riguarda le strutture politiche. A tale proposito, veniva difeso un severo principio gerarchico e si parlava perfino di un Ordine. Le caratteristiche di esso essendo dette tanto «spartane» quanto prussiane, da Ordine dei Gesuiti e da élite di comunisti puri, appare evidente che lo Jünger ha avuto in vista un ideale affacciatosi con tratti consimili in movimenti di ieri e di oggi di opposto segno, ma accomunati da una stessa antitesi rispetto al mondo della borghesia e della democrazia.[18]

Tale dimensione trasversale dell’Arbeiter (per il quale forse sarebbe adatta la traduzione con Operatore) risulta poco interessante per Evola; da qui (a parte altre questioni pratiche a cui fa allusione) l’idea di presentare il libro di Jünger attraverso un’ampia sintesi, in forma di saggio. Insomma, un testo emendato. La critica fondamentale mossa da Evola è che l’Operaio rischia di restare chiuso nel piano di un attivismo nel quale manchi la «dimensione della trascendenza» (concetto che, per la verità, risulta piuttosto vago nel pensiero di Evola), trascendenza che sarebbe la sola in grado di generare e fondare nuove gerarchie, e dunque nuovi ordinamenti sociali. D’altra parte, commenta, è dubbio che questa dimensione di trascendenza possa esse-re «riconquistata» – affermazione che la rende una trascendenza piuttosto strana. In conclusione, perché il tipo umano dell’Operaio si differenzi e prenda forma, sarebbe necessaria una vera e propria mutazione. Nonostante ciò, Evola riconosce che la tematica jungeriana viene da lui ripresa ed estesa in Cavalcare la tigre:

L’ultimo libro da me scritto, Cavalcare la Tigre, in parte riprende, estendendola e completandola, la tematica dello Jünger. In essenza, esso corrisponde al bilancio negativo che ho dovuto trarre dalle mie esperienze e alla visione realistica della situazione generale, cioè al convincimento che nulla può esser fatto per provocare una modificazione di rilievo in questa situazione, per agire su processi che ormai, dopo gli ultimi crolli, hanno un irrefrenato corso. In particolare, l’incentivo a scrivere il libro mi è stato dato anche da varie persone che mi avevano seguìto nella fase «tradizionale», che avevano pertanto riconosciuto il superiore diritto di un sistema dell’esistenza e della società che riflettesse i valori della Tradizione quali li avevo messi in luce soprattutto in Rivolta contro il mondo moderno, ma che si domandavano che cosa mai si potesse fare in seno ad un mondo, ad una società e ad una cultura come quelle ormai stabilizzatesi nell’epoca attuale.[19]

Questa citazione ci fornisce diversi elementi interessanti. In primo luogo, Evola conferma che l’impianto della prospettiva delineata in Cavalcare la tigre è legato al pensiero di Jünger; in secondo luogo, che questa prospettiva nasce dal recupero di un cammino intellettuale, o un percorso teoretico, insomma da uno snodo, che era stato abbandonato seguendo la direzione del tradizionalismo degli Anni Trenta; in terzo luogo, Evola parla di una fase tradizionale del suo pensiero, dandola evidentemente per superata e, in maniera sorprendente, le virgolette sono poste sull’aggettivo tradizionale e non sul sostantivo fase: come se la fase di Rivolta contro il mondo moderno fosse tradizionale, ma solo in un certo senso. Di fatto, più Evola accentua la sua distanza da Jünger, anche con qualche battuta polemica sopra le righe, più ne sposa la prospettiva. Scrive così in Cavalcare la tigre:

Chi forse aveva messo in luce meglio di ogni altro questi processi,[20] è stato Jünger, nella sua opera Der Arbeiter. Si può senz’altro seguire lo Jünger, quando egli ritiene che per effetto di codesti processi del mondo attuale, al luogo dell’individuo prenderà forma il «tipo», presso a un essenziale impoverimento dei tratti e del modo di vivere dei singoli, ad un dissolvimento dei «valori culturali», umanistici e personali. In grandissima parte, la distruzione viene subita, l’uomo di oggi è il semplice oggetto di essa. Allora il risultato è il tipo umano vuoto in serie, quello che corrisponde alla standardizzazione, all’uniformità piatta, quello che è ancora «maschera» in senso negativo: prodotto moltiplicabile insignificante.[21]

Il nuovo tipo umano dell’Operaio viene caratterizzato da un’estrema lucidità e da oggettività, e dalla capacità di «tenersi in piedi» sulla scorta di valori che non appartengono all’individualismo borghese. Assumere in modo attivo e positivo i processi di spersonalizzazione prodotti dalla tecnica risulta tuttavia problematico:

Certo, lo Jünger si illudeva nel ritenere che il processo attivo della spersonalizzazione tipica corrisponda alla direzione prevalente del mondo in sviluppo di là dall’epoca borghese (del resto, successivamente egli stesso doveva passare regressivamente a tutto un altro ordine di idee). Ad essere prevalenti e determinanti sono e saranno invece sempre più i processi distruttivi passivi, da cui può nascere soltanto una squallida uniformizzazione, una «tipicizzazione» priva della dimensione in profondità e di una qualsiasi «metafisica», definentesi dunque ad un livello esistenzialmente più basso di quello, già problematico, dell’individuo e della persona.[22]

Tuttavia, le possibilità positive sono accessibili per l’esigua minoranza di individui «nei quali preesiste o è ridestabile la dimensione della trascendenza. […] Unicamente da costoro può essere fatta tutta una diversa valutazione del “mondo senz’anima” delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne, di tutto ciò che è pura realtà e oggettività, che appare freddo, inumano, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico”».[23] Se pochi sono gli eletti, in compenso le occasioni da affrontare sono numerose e persino banali:

Non è necessario, a tale riguardo, considerare esclusivamente situazioni eccezionali e liminali. Si tratta dello stile generale di un nuovo realismo attivo che libera ed apre vie anche in mezzo al caos e al grigiore. Fra l’altro, qui può presentarsi come simbolo la stessa macchina e tutto ciò che ha preso forma in certi settori del mondo moderno in termini di pura funzionalità (in particolare, in architettura). Come simbolo, la macchina rappresenta una forma nata da una esatta, oggettiva adeguazione dei mezzi ad un fine con esclusione di tutto ciò che è superfluo, arbitrario, dispersivo e soggettivo; è una forma che realizza con precisione una idea […]. Sul suo piano, essa riflette dunque in un certo modo il valore stesso che nel mondo classico ebbe la pura forma geometrica.[24]

È a questo punto che si colloca il richiamo a Frank Matzke, alla Neue Sachlichkeit, e al romanzo Jugend bekennt: so sind wir!, per dire che l’esigenza di oggettività di quella generazione non si esauriva sul piano dell’arte, ma nasceva da una forma interna, un carattere che veniva modellato dai processi storici già in corso in quell’epoca: «Su questo piano poteva definirsi un realismo che significava freddezza, chiarezza, serietà e purezza: distacco dal mondo dei sentimentalismi, dei “problemi dell’io”, della tragicità melodrammatica, da tutta l’eredità del crepuscolarismo, del romanticismo, dell’idealismo e dell’ “espressionismo” – un realismo che comportava il senso della vanità dell’Io e del credersi importanti come individui».[25] «I tratti essenziali del nuovo atteggiamento erano stati infatti indicati appunto nella distanza, nell’estraneità, nell’altezza, nella monumentalità, nella laconicità, nella revulsione da tutto ciò che è calda vicinanza, “umanità”, effusività, “espressionismo”».[26]

Per Matzke, ogni generazione è legata a un tipo umano, che si può descrivere ma non definire. Individuò quello della sua generazione nell’oggettività, Sachlichkeit, in riferimento a un movimento artistico preesistente, posteriore e polemico verso l’espressionismo, accusato di riversare una forte carica sentimentale sugli oggetti. La letteratura della Nuova Oggettività rifiuta lo psicologismo e l’introspezione dei personaggi, nonché il sentimentalismo borghese, cercando una narrazione distaccata, in cui l’emotività dello scrittore non sia coinvolta: sostanzialmente è in linea con le nuove forme di realismo elaborate dalla letteratura e dall’arte europea a partire dalla fine del XIX secolo.[27] Per le sue tematiche e i suoi stili, la Nuova Oggettività è una forma di realismo sociale. La denominazione si deve a Gustav Friedrich Hartlaub, che nel 1923 era diventato direttore della Kunsthalle di Mannheim (fu successivamente licenziato dai nazisti per la sua politica culturale), per designare una mostra del 1925 con opere di Grosz, Dix, e Schad; poi passò a indicare la letteratura dell’epoca, l’architettura del Bauhaus e il nuovo cinema realista, che ne fu forse l’arte più rappresentativa.[28] Gli artisti della tendenza neo-oggettivista non furono mai una scuola definita da un manifesto dettagliato. Dix e Grosz, ad esempio, provenivano dal dadaismo ed erano stati legati al realismo socialista e al Novembergruppe, di cui faceva parte anche Brecht, e portarono nella Nuova Oggettività una forte polemica anticapitalistica.[29]

Evola nota che correnti analoghe alla Nuova Oggettività hanno dato impulso all’architettura funzionale del primo dopoguerra, con una semplificazione delle forme che fece parlare di nuovo classicismo; cita inoltre l’Esprit nouveau francese e il Novecentismo di Bontempelli: «Malgrado la loro limitata pertinenza intrinseca a quanto a noi qui interessa, questo motivo di un nuovo realismo contiene valenze suscettibili ad essere rapportate ad un piano superiore, spirituale, in vista del compito di capovolgere nel positivo ciò che deriva dall’esperienza del mondo più moderno».[30] In questo contesto, la Nuova Oggettività viene chiaramente proposta in alternativa sia al neorealismo italiano, del quale viene data una risentita descrizione caricaturale, sia al realismo socialista.

L’operazione compiuta collegando insieme la prospettiva jungeriana dell’Operaio e il realismo sociale della Nuova Oggettività nella versione che ne dà Matzke (quasi del tutto dimenticato quando si pubblica Cavalcare la tigre), risulta chiara leggendo ciò che si dice nel Cammino del cinabro: Cavalcare la tigre vi è descritto come un testo destinato a chi non appartiene interiormente alla cultura borghese, e non ha interesse a «battersi su posizioni perdute», cioè a una mera politica reazionaria o di semplice testimonianza, bensì per chi «non può o non vuole staccarsi dal mondo attuale».[31] Poiché ad essere in crisi – si osserva –  è il mondo borghese, chi non si identifica con esso non ha alcun obbligo morale di curarne la difesa:[32] Evola considera del tutto inutile l’aggancio a strutture che hanno mantenuto un’apparenza tradizionale, avendo tuttavia perso il loro effettivo valore (in questo contesto critica il formalismo di Guénon), preoccupandosi soprattutto «che del tradizionalismo non si facesse uno strumento del conformismo».[33]

Credo che a questo punto si possa proporre una conclusione. L’operazione che Evola compie articolando la prospettiva esistenziale dello Jünger dell’Operaio con il realismo sociale della Nuova oggettività è analoga a quella che aveva compiuto negli Anni Trenta nel contesto del regime fascista. Senza mai essere stato fascista, e avendo anzi mosso  dure critiche al regime e alle sue dottrine, Evola aveva cercato di svolgervi un’azione rettificatrice, proponendo idee in fondo estranee al fascismo, a parte qualche assonanza puramente nominale o per la presenza di simboli, peraltro fortemente decontestualizzati: voglio dire che un conto è la visione tradizionale dell’imperium, come la formula Evola, e tutt’altro conto è la versione caricaturale che ne dà l’impero fascista. Orbene, nel secondo dopoguerra, venuta meno la possibilità di un’alternativa al mondo borghese attraverso l’uscita di destra dell’improbabile mutazione del fascismo, Evola teorizza un’uscita di sinistra attraverso un’analoga operazione culturale di rettifica del comunismo. Da qui l’importanza del realismo sociale in versione Matzke, sufficientemente distante dal comunismo sovietico (realismo socialista) e da quello italiano (neorealismo) e tuttavia adeguato a combattere la visione borghese in una prospettiva non reazionaria e non conservatrice.

Il completamento di questa prospettiva si ha quando, nell’Arco e la clava, si manifesta un apprezzamento per la beat generation e si propone la figura dell’anarchico di destra. Riguardo alla prima, scrive: «Unicamente per tutto quel che è anticonformismo pratico, smitizzazione, fredda non identificazione con tutte le istituzioni della società borghese non vi è nulla da obiettare, quando questa linea viene seriamente seguita da una nuova generazione».[34] Riguardo al secondo, si richiama naturalmente Cavalcare la tigre, qui definito come un manuale dell’anarchico di destra, si torna a citare Jünger, ma poi non mi pare che si vada oltre alcune indicazioni etiche a carattere fortemente conservatore. È tuttavia probabile che, accettando la qualifica di anarchico, sia pure con rettificazioni, Evola voglia suggerire delle possibilità operative che difficilmente potrebbero essere sistematizzate, nel senso che un anarchismo che proviene da destra è tutto da costruire, ma non è necessariamente antitetico a un anarchismo che viene da sinistra. Certo è che, se dietro questa figura vediamo in trasparenza ancora un’idea di Jünger, cioè il tipo dell’Anarca, dobbiamo dire che Evola, pur facendo tutta una serie di distinguo (anche fumosi) sul piano teorico, accentua nei fatti quello che si può definire il suo «jungerismo» – e sarebbe stato di estremo interesse, sul finire degli Anni Sessanta e nei Settanta, un dialogo tra i movimenti di contestazione del radicalismo extraparlamentare di destra e di sinistra, ma disgraziatamente si trattava di ambienti dove c’era assai poca intelligenza e moltissima intelligence a manipolare gli ingenui.

In buona sostanza, Evola introduce in Italia il pensiero di Jünger, non con una lettura storiografica o filologica, bensì mediante un’interpretazione, uno sviluppo teoretico che in parte dà spessore ai testi dello scrittore tedesco (che, non dimentichiamo, si esprime con uno stile più letterario che filosofico), ma in altra parte, necessariamente, lo altera.

Ci si può chiedere, in conclusione, che cosa resta di questo poderoso sforzo di costruire una prospettiva affidabile di superamento della borghesia e del nichilismo. La risposta ha luci e ombre, e mi limito ad indicare brevemente le criticità su cui sarebbe opportuno ragionare.

Bisognerebbe anzitutto portare un po’ di chiarezza sull’ambiguo concetto di nichilismo, in cui tanto Evola quanto Jünger riprendono una confusa immagine di Nietzsche. Nel prevedere l’avvento di una società priva ormai della sua fisionomia, della sua forma, Nietzsche coglie l’aspetto negativo consistente nel venir meno di valori comuni, socialmente vigenti; ma il non avere valori comuni non significa affatto assenza di valori: possono esistere valori personali, che non sono in comune con la collettività, valori individuali. In positivo, questo delinea l’immagine di una cultura di tipo alessandrino, sul modello dell’ellenismo – e basta solo richiamare questo esempio storico per rendersi conto che la condizione normale, la tradizione in tutta l’area mediterranea è da sempre la pluralità e il confronto tra le tradizioni. Detto in altre parole, c’è un tipo di tradizionalismo che caratterizza le società chiuse e una tradizionalità che caratterizza le società aperte. E persino l’Evola più conservatore, per non dire ottocentescamente reazionario, finisce col rendersene conto quando, ne Gli uomini e le rovine, pone il problema della scelta delle tradizioni: nel mondo odierno si può scegliere la propria tradizione, e costruire in base ad essa la propria identità, non tanto perché la propria tradizione originaria si è perduta, quanto piuttosto perché molteplici tradizioni sono entrate in contatto, ne abbiamo notizia e possiamo conoscerle adeguatamente.[35]

In secondo luogo, sarebbe quanto mai utile se si operasse nel pensiero di Evola e Jünger una sorta di depurazione dagli elementi romantici: tutta questa insistenza sulle rovine, sul titanismo, sugli individui differenziati rarissimi e quasi impossibili da trovare, sulla fine dei cicli cosmici, sulle aperture alla trascendenza… sono scorie romantiche finite, attraverso l’idealismo tedesco, sugli occhi dell’interprete della tradizione del primo Novecento come lenti deformanti. All’idealismo dobbiamo la sostanziale assenza della dimensione storica nel pensiero dei nostri due autori, oltre a una certa vaghezza concettuale: per esempio, se esiste un divino, è evidente che la sua presenza e la sua azione sono intrinseche al mondo creato, o manifestato che dir si voglia, e che quindi l’apertura alla trascendenza sia connaturale all’uomo, che questi lo sappia o meno; e se gli è connaturale, non è la presenza o l’assenza di trascendenza a differenziare, ma il modo in cui viene vissuto personalmente il proprio progetto vitale, il proprio radicamento nel divino e l’essere, in ultima analisi, parente degli dèi.

Infine, romantico e idealista è l’atteggiamento di chi presenta la propria prospettiva come un sapere sottratto alla discussione e usato come criterio di valutazione. Evola non si accorge che questo rientra in una concezione evoluzionista che condiziona la sua interpretazione della tradizione. Si può esser d’accordo, ad esempio, sul fatto che il suo pensiero non presenti tracce di un razzismo biologico e teorizzi invece una razza dello spirito, ma all’atto pratico questa reinterpretazione o rettifica dell’idea razzista è ambigua: si può sorridere del fatto che egli raffiguri il tipo umano tellurico lunare mediante una stralunata fotografia di Giovanni Papini, ma questa differenza di gerarchia e di valore tra le culture solari e quelle telluriche è un evoluzionismo che gli viene da Bachofen (che era appunto evoluzionista intriso di cultura idealista) mescolato col pregiudizio filoariano di De Gobineau. Evola non discute mai le sue radicate credenze filogermaniche, né ammette una pluralità di punti di vista, rispetto ai quali sente sempre il bisogno di imporre ordine e gerarchia. E non è raro che lo faccia senza cognizione di causa, come quando descrive il comunismo con gli stessi termini che userebbe una bigotta di paese plagiata da un curato analfabeta.

«Jünger, il realismo sociale e la “terza navigazione” di Evola», in Luigi Iannone (ed.), Ernst Jünger, Solfanelli, Chieti 2015, pp. 108-26.

 

Note

[1] Padre Agostino Gemelli fonda la Rivista di filosofia neoscolastica nel 1910 e nel 1914 la rivista Vita e pensiero che, oltre a sostenere una visione politica direttamente derivata dalla controriforma, appoggia apertamente il fascismo e l’antisemitismo. Si muove, cioè, su un livello culturale vecchio di almeno 100 o 150 anni rispetto al livello degli Anni Dieci del Novecento.

[2] Basti pensare a Schelling con la Filosofia della mitologia (Philosophie der Mythologie) del 1842; all’idealismo magico di Novalis, o ad August Wilhelm von Schlegel, che pubblica la rivista Indische Bibliotek (1823-1830), e traduce la Bhagavad Gita e il Ramayana.

[3] Per una panoramica generale su tali tematiche, sulla nascita dell’arte nuova e su una nuova concezione del realismo, si veda Gianni Ferracuti, Baudelaire e il modernismo, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2021, <www.amazon.it/dp/B09MYSQ7XT>; id., Modernismo, teoria e forme dell’arte nuova, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2010 <www.amazon.it/dp/B09HG59QPF >.

[4] Per una visione generale del pensiero e del percorso intellettuale di Evola si veda il mio Julius Evola, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2010 <www.amazon.it/dp/B09MYQ8Z3F >.

[5] Al di là delle semplificazioni progressiste, esistono forme di modernità diverse e inconciliabili tra loro: basti pensare, sul piano dei valori, alle differenze profonde e ai conflitti tra rinascimento, barocco ed illuminismo (cfr. G. Ferracuti, Profilo storico della letteratura spagnola, Mediterránea, Centro di Studi Interculturali, Trieste 2008 <www.amazon.it/dp/B08H2JQHPC >).

[6] Jean-François Lyotard, La condition postmoderne, Éditions du Minuit, Paris 1979.

[7] Circa il carattere problematico della concezione del nichilismo in Nietzsche, e di conseguenza in Jünger ed Evola, cfr. il mio Difesa del nichilismo: Ventura e sventura dell’uomo-massa nella società contemporanea, Mediterránea, Centro di Studi Interculturali, Trieste 2015, disponibile online <www.amazon.it/gp/product/B08WJJHVDD >

[8] Julius Evola, «art. cit.», in Rassegna Italiana, XVI, 1933, pp. 315-24.

[9] Si tratta di atteggiamenti comunemente presenti nella cultura europea tra fine Ottocento e primo Novecento, sia nella filosofia (fenomenologia) sia in molte correnti artistiche del decadentismo, o modernismo che dir si voglia.

[10] ibid., p. 316.

[11] ibid., p. 317.

[12] ibidem.

[13] ibid., p. 318.

[14] id., «L’operaio e le scogliere di marmo», in Bibliografia Fasci­sta, XVIII, 1943, pp. 143-51 (poi: Ar, Padova, 1977).

[15] id., Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano 1963, p. 211.

[16] ibidem.

[17] ibid., p. 212.

[18] ibid., pp. 212-3.

[19] ibid., pp. 215-6.

[20] Ndt.: tecnica, spersonalizzazione…

[21] J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971, p. 111.

[22] ibid., p. 113.

[23] ibidem.

[24] ibidem.

[25] ibid., p. 114.

[26] ibid., p. 115.

[27] Basti qui pensare al concetto di disumanizzazione, teorizzato da Ortega y Gasset ne La deshumanización del arte, del 1925 (Obras completas, Alianza, Madrid 1987, vol. III, pp. 353-386), ma largamente praticato nel modernismo di fine secolo. Cfr. anche Jacques Durand, Le roman d’actualité sous la République de Weimar, L’Harmattan, Paris 2010, p. 49. Su Ortega cfr. i miei saggi: Traversando i deserti d’occidente: Ortega y Gasset dalla filosofia al mito, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2012 <www.amazon.it/dp/B09HQZ8VR9>; L’invenzione del Novecento: le Meditazioni sul Chisciotte di Ortega y Gasset e la nuova idea di realtà, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2013 <www.amazon.it/dp/B08X532HDS >; «José Ortega y Gasset e il modernismo: Cento anni di Meditaciones del Quijote», Studi Interculturali, 2/2014, pp. 7-38; «“Il punto di vista crea il panorama”: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset», Studi Interculturali, 2/2015, pp. 96-118; Liberalismo, socialismo, nazione, le qualità del politico nel pensiero di Ortega y Gasset, Mediterránea – Centro di Studi Interculturali, Trieste 2021 <www.amazon.it/dp/B08Y5JRM3J>.

[28] «Il cinema weimariano, o meglio la sua piccola parte più impegnata o sperimentale, lontana dai cliché dei generi popolari dell’Unterhaltung, tese allora a immergersi nella realtà quotidiana, intesa sia nei suoi aspetti borghesi sia in quelli proletari. Al centro dell’attenzione si pose la raffigurazione dell’uomo comune e della sua grigia esistenza quotidiana, svelando quindi la contraddizione della grande città, nei cui vicoli si nascondevano disoccupazione, miseria e conflitti di classe. Il concetto di inumanità nella descrizione dell’individuo, che aveva già caratterizzato la svolta degli anni Venti e che risentiva anche di un certo naturalismo di stampo ottocentesco, perse il suo carattere astratto per divenire “tecnologico” e metropolitano. Tuttavia ciò che caratterizza principalmente la N. S. è la mancanza dell’“urlo di dolore”, in favore di una sorta di apatia o disillusione. Proprio questo aspetto legato alla rassegnazione suscitò roventi polemiche da parte di alcuni intellettuali coevi: il più severo fu Walter Benjamin nell’accusa ai “radicali di sinistra” (Erich Kästner, Walter Mehring, Kurt Tucholsky) di acquiescenza e di incapacità di indignarsi» (cfr. Nuova oggettività nell’edizione online della Treccani, <http://www.treccani.it/enciclopedia/neue-sachlichkeit_res-748114e8-6640-11de-bfe3-005056b3532f/>.

[29] «Il sostrato ideologico della NS è dato dalla coincidenza nei vari scrittori e registi di determinati atteggiamenti di critica sociale: a differenza degli espressionisti che avevano mitizzato, in senso ora negativo ora positivo, l’intervento della macchina e della tecnologia sul piano sociale, i nuovi scrittori “oggettivi” tentarono di comprendere l’industrialismo e i relativi fenomeni di massa come fenomeni dell’auspicato “funzionalismo” della società moderna» (ibidem). Si veda anche Elena Pontiggia (ed.), La nuova oggettività tedesca, Abscondita, Milano 2002.

[30] J. Evola, Cavalcare la tigre, cit., p. 116.

[31] id., Il cammino del cinabro, cit., p. 216, mio corsivo.

[32] «Si trascura di precisare che cosa sia propriamente colpito da questa crisi, da questo declino. forse il mondo della Tradizione? Per nulla. È essenzialmente il mondo borghese, la civiltà borghese del Terzo Stato, la quale ha rappresentato una negazione de mondo della Tradizione. Così per questi fenomeni di crisi si potrebbe parlare, hegelianamente, di una “negazione della negazione”, quindi di qualcosa che può eventualmente avere valenze non soltanto negative. L’alternativa è che questa “negazione della negazione” sbocchi nel nulla […], ovvero che essa, per l’uomo a cui mi sono rivolto, crei un nuovo spazio libero. Così viene ribadita l’istanza antiborghese e si respinge il “regime dei residui”, il vano tentativo di opporre ai processi dissolutivi in corso l’una o l’altra delle sopravviventi forme della vita borghese. Prendere decisamente posizione a tale riguardo, mi è apparso necessario anche pel fatto che da alcuni è stata avanzata l’idea di rafforzare tali residui (ad esempio, con riferimento al cattolicesimo borghesizzato) mediante l’innesto di qualche idea tradizionale, senza accorgersi che ormai ciò equivarrebbe solo a compromettere pericolosamente tali idee senza giungere a nessuna salda posizione» (ibid., p. 217).

[33] ibid., p. 218.

[34] id., L’arco e la clava, cit., p. 219.

[35] Cfr. la definizione di una prospettiva interculturale in Studi Interculturali, 1, 2013, pp. 7-11 <www.interculturalita.it> (testo riportato nel presente volume come «Studi Interculturali: manifesto editoriale»).