Studi Interculturali

Pier Francesco Zarcone: Ricostruzione del Natale perduto

Ricostruzione del Natale perduto[1]
Pier Francesco Zarcone

Parliamo di Natale perduto perché quel che viene celebrato annualmente, pur mantenendone il nome, è ormai tutt’altra cosa: una pagana e sguaiata orgia mangereccia e consumista di gente ormai decerebrata e mossa verso questa ricorrenza dalla bulimia feticista per acquisti magari costosi ma spesso inutili o di cattivo gusto. Tali acquisti, passate le feste, lasciano il problema (non sempre facilmente risolvibile) di individuare a chi sbolognarli il prima possibile, ma con l’apparenza di trattarsi di cose pregiate, cioè con lo stesso atteggiamento di chi in origine li portò in regalo. Inutile dire che il processo di sbolognamento richiede l’individuazione di soggetti che teoricamente mai si incontreranno (né si incontrerebbero) coi donatori originari.

Spesso anziani e vecchi rimpiangono la magia dei periodi di Natale della loro giovinezza. Una certa magia effettivamente c’era, soprattutto per le generazioni anteriori al ’68. Ancora il simbolo del Natale era il presepe, e comporlo o da soli o aiutati da genitori e/o nonni aveva qualcosa di magico per il fatto di ricreare – più o meno – l’ambiente dove era nato quel divino bambino sulla cui divinità, peraltro, non è che ci si capisse molto. Ma comunque la si accettava. Le competenze per i regali erano equamente ripartire tra Gesù Bambino e l’inesistente Befana dalle origini non molto chiare.

Il primo “entrava in azione” subito dopo la commemorazione della nascita, cioè dopo la mezzanotte del 24, e la seconda il 6 gennaio. Era bello scrivere la letterina a Gesù Bambino comunicandoGli i propri desideri. A parte l’innegabile materialismo della cosa, almeno il nesso comunicativo si sviluppava verso il protagonista dell’evento natalizio, senza intromissioni di quel nulla fenomenico rispondente al nome di babbo natale, vecchio nordico coi colori della Coca-Cola (pagliaccesca versione protestante di S. Nicola di Mira, poi di Bari).

Poi i tempi sono cambiati e la colonizzazione yankee, detta american way of live, progressivamente ha dominato molti aspetti della vita nostrana e l’albero di Natale – del tutto estraneo alle tradizioni mediterranee – ha dominato la scena natalizia, con tutta la sua freddezza non riscaldata (anzi!) dal sistema di lucine alterne che spesso non funzionano bene.

E fin qui niente di davvero spirituale. Nemmeno nei tradizionali canti natalizi: dal Tu scendi dalle stelle al teutonico e “pesante” Stille Nacht, ci si muoveva in un’atmosfera sentimental-sdolcinata, e nulla di più. Per mera carità cristiana si omettono giudizi sulle canzoncine e le musichette in voga nella Yankeelandia o, per i Latino-americani, gringolandia.

Il Natale è qualcosa di diverso, definibile mysterium tremendum et fascinans, in quanto irruzione del Sacro nella sua massima dimensione. Qui è l’essenza del Natale. Il resto sono chiacchiere più o meno sentimentali e sdolcinate, che alla fine fanno più male che bene. Il Natale attesta il fatto storico dell’Incarnazione divina per la trasmutazione e salvezza dell’essere umano e del cosmo; attesta che Dio non è un’entità metafisica lontana, ma presente, ed apre all’essere umano il cammino per la divinizzazione personale (cosa mai ammessa dal Cristianesimo occidentale).

I canti della Divina Liturgia ortodossa esprimono una ben altra dimensione dello spirito ed un radicamento teologico di tutt’altro livello rispetto ai “fratelli separati” d’Occidente spesso e volentieri presentatisi come eredi legittimi di Caino.

Per esempio, il Tropario di Natale dice

La tua Nascita, o Cristo nostro Dio, / ha fatto risplendere sul mondo la luce della conoscenza. / Con essa gli adoratori degli astri hanno imparato ad adorare Te per mezzo di una stella, / il Sole di Giustizia, / e a conoscerTi, oriente venuto dall’alto: o Signore, gloria a Te. 

E il Condakio natalizio,

Oggi la Vergine ha partorito Colui che è trascendente in essenza, / e la Terra offrì una caverna a Colui che è irraggiungibile. / Angeli e pastori Lo glorificano, i Magi con una stella sono in viaggio, / perché un Bambino è nato per la nostra Salvezza, / Lui che è il Verbo Eterno. 

Poiché oggi sulla nascita di Gesù-Lógos prevale la festa anglosassone di Babbo Natale, è ovvio che ai piccoli ed ai loro genitori ormai decerebrati sfugga quale nascita si commemorava periodicamente. È Natale e basta, e tutti son contenti: atei ed agnostici se ne fregano e possono abbandonarsi ai piaceri della tavola in una festività in più che a volte consente di fruire di “ponti” di tutto rispetto; i credenti vanno alla liturgia sempre più inconsapevoli e tutto sommato respirano un po’ di aria meno inquinata (si spera).

Per le ormai minoranze cristiane sia motivo di riflessione, magari non del tutto appagante, il fatto che nelle maggioranze nichiliste gli attivi nemici del Natale – che lo cancellerebbero volentieri sostenendone la nullità di contenuto – si impegnano vigorosamente in tutti i modi per boicottarlo, facendo pensare che tale ricorrenza religiosa faccia su di loro lo stesso effetto dell’aglio sui vampiri.

Eventi degni di entrare nel purtroppo inesistente Guinness delle Stronzate sono le decisioni di certe scuole italiche contro le manifestazioni natalizie (a cominciare dai presepi) con la scusa (tra il buonismo obbligatorio di certa pseudosinistra – o meglio, della c.d. sinistra di oggi – e l’ipocrisia) di non turbare gli scolari musulmani, quando poi per l’Islām Gesù (ʿĪssā) è il maggior profeta prima di Muḥammad e secondo il Sacro Corano la Sua nascita sarebbe avvenuta per opera diretta di Dio sulla vergine Maria (e sul punto è consigliabile non fare gli spiritosi coi Musulmani, che reagirebbero in modo meno disinvolto ma ben più appropriato ed efficace di quanto facciano i Cristiani occidentali)[2].

Nell’articolo pubblicato a dicembre su “ereticamente.net”, dal titolo Natale ossia nascita, Roberto Pecchioli (n. 1954) ha terminato lo scritto sostenendo che

siamo turbati dalla fine del Natale, dalla sua riduzione a intermezzo di consumo, luci artificiali e ostentati buoni sentimenti. Crediamo per quanto sia assurdo, perché senza la luce del totalmente Altro siamo solo animali parlanti, un po’ più intelligenti, un po’ più crudeli. (…) Possiamo esaltare tutta la scienza del mondo, ma l’unica risposta che placa la sete, che allontana il terrore, che riconcilia e talvolta arriva a farci chiamare fratelli, è Dio. Perciò quella nascita interroga ciascuno, e non permette che il 25 dicembre sia soltanto un giorno di grandi pranzi in cui si millanta felicità. No, l’uomo non è ciò che mangia, come pensava Feuerbach. E se davvero il bambino di Betlemme fosse il figlio di Dio, e questa vita un lacerto di eternità?

Questa domanda ci avvicina all’essenza del 25 dicembre. Ma prima ci sarebbe qualcosa da dire circa l’usuale – e un po’ “piatto” – buon Natale, espressione su cui generalmente non si riflette. Augurare un Natale “buono” può avere una vasta gamma di significati che qui non mette conto analizzare, bastando solo dire che si tratta di bontà nel senso di stare bene in molti modi. Più inerente al benessere spirituale è l’equivalente serbo della nostra espressione augurale: srèćan bòžić, in cui srèćan indica felicità. E per il Cristiano il Natale non può che essere felice, per il semplice fatto di contenere (per il momento limitiamoci a questo verbo la più elevata e positiva delle “buone novelle”: il Lógos divino si è incarnato ed è fra di noi [3], in un’operazione coinvolgente l’intera Trinità.

Note

[1] Spesso gli articoli sono frutto di riflessioni provocate da esperienze personali, come nel caso del presente scritto, il cui autore – dopo due anni di precario auto-esonero dall’incombenza annuale del “cenone” natalizio – stavolta è fresco reduce da un’apposita cena famigliare. A mancare del tutto era un qualsiasi contenuto religioso-spirituale inerente al 25 dicembre (inteso come Natale e non come solstizio d’inverno). D’altro canto, la figlia è apparentemente agnostica, ateo il suo compagno, il loro figlioletto coerentemente non battezzato, atei entrambi i genitori del sopramenzionato compagno. Credenti, invece, colui che scrive e la moglie. Mancava un ulteriore ateo: il figlio che vive a Roma. Inutile cercare un nesso logico tra questa scombiccherata compagnia e il Natale al di là del riunirsi tra mura domestiche per mangiare l’immancabile porcellino arrosto con patate (leitão, la porchetta portoghese). Atmosfera come sempre formalmente allegra, ma sempre incombente il pericolo di qualche sproposito involontario o, peggio, volontario (in genere da parte del sottoscritto). Ovviamente, assenza del presepe; per forza, ormai il Natale – nel silenzio/assenso della Chiesa romano-cattolica e della galassia protestante – è la festa di Babbo Natale. Ovvio che troneggi, in tutto il suo “splendore”, il pagano-nordico albero di natale. Una prece per quei Cristiani che nel mondo ancora rischiano la pelle per voler celebrare religiosamente il Natale. E magari senza neppure una consolante fetta fredda di leitão).

[2] Nei Balcani non islamici lo spiritoso venuto da Occidente può rimediare una classica coltellata ortodossa, punitiva e pedagogica nello stesso tempo.

[3] In russo, al contrario, l’augurio è dello stesso tipo del nostro: Доброго Рождества. In greco è kαλά Χριστούγεννα, in cui il bene e/o la bontà e/o la bellezza di kαλά sono espressamente riferiti al fatto della nascità di Cristo, e non di un inesistente babbo natale calato dal gelo nordico.