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Gianni Ferracuti: Archi e anarchi – Appunti su Ernst Jünger

Archi e anarchi
Appunti su Ernst Jünger
 Gianni Ferracuti (1996)

[«Archi e anarchi» è un saggio del 1996 pubblicato su Futuro Presente, IV, 1996, n. 8, pp. 39-51, poi in L’invenzione del tradizionalismo, disponibile online]

 

«Non è l’arsenico in botti­glia con tanto di etichetta che è pericoloso, ma l’arsenico nella minestra»

(Ezra Pound)

Nella premessa del 1963 all’Operaio (Der Arbeiter), Jünger scri­ve: «In quegli anni [1932] nessuno poteva negare che il vecchio or­dine delle cose fosse insostenibile, né sopravvivevano dubbi sul­l’avvento di nuove forze. Il saggio rappresentò e rappresenta il tentativo di raggiungere un punto di osservazione dal quale gli avvenimenti molteplici e contrastanti possano essere non soltan­to capiti, ma anche affrontati, per quanto ciò finisca per essere pericoloso».

È qui indicata una situazione di fatto: il crollo di un ordine e l’av­vento di forze nuove sulla scena della storia. Senza valutazione: non si dice se il vecchio ordine – o le nuove forze – abbiano un valore posi­tivo o negativo. C’è una situazione in movimento, una crisi storica. E c’è il problema di gestirla, di affrontare gli eventi, perché l’evolu­zione non sia imprevista e casuale, o peggio: travolgente.

Nel 1932, come premessa alla prima edizione, scriveva: «Il progetto di questo libro consiste nel rendere ben visibile la fi­gura dell’operaio, al di là delle dottrine, delle divisioni di parte e dei pregiudizi, come una grandezza attiva che già è potentemente intervenuta nella storia ed ha imperiosamente determinato le for­me di un mondo trasformato».

L’Operaio, dunque, è la nuova forza in avvento. Non si tratta di un nuovo pensiero o di un nuovo schema teoretico formulati attra­verso il concetto di Operaio: non è questo che interessa Jünger. Egli è piuttosto attento a una nuova realtà: è la figura dell’Operaio come realtà nuova, una figura o tipo umano non presente nel repertorio so­ciale prima vigente. La nozione di Operaio non viene derivata da un pensiero teorico, ad esempio dal comunismo, ma al contrario, il pen­siero teorico è ritenuto un tentativo di capire la nuova realtà. Come realtà, l’Operaio precede la riflessione sulle figure sociali. Pertanto, è possibile che questa riflessione, ad esempio il comunismo, non colga tutti gli aspetti che la realtà dell’Operaio contiene o non ne in­tenda in pieno il significato.

Ora, comprendere la nuova figura vuol dire comprendere una nuova realtà umana, il che pone immediatamente dinanzi al proble­ma metafisico della comparsa di una nuova realtà. Contemporanea­mente, è anche un problema di filosofia della storia: la nuova realtà compare sullo scenario del tempo storico. La descrizione della figu­ra è il metodo di comprensione adottato da Jünger.

Come nuova figura, l’Operaio è un tipo umano, una forma o Ge­stalt. «Tipo umano» è espressione del tutto innocente. C’è il tipo umano dell’estroverso e quello del timido. E c’è il tipo nuovo dell’O­peraio. Nel comportamento di un certo numero di individui notiamo delle costanti, che a posteriori definiscono un tipo, un modo di esse­re uomo, di comportarsi, una forma di vita o di sentire. Che cosa è questa forma? È la «partecipazione» a un eidos platonico? Troppo concettuale e troppo vecchio: Jünger scarta questa possibilità. Neppure la metafisica moderna, culminata in Hegel, può renderle ragione. La Gestalt del­l’Operaio, in quanto figura reale e nuova, pone un problema metafi­sico, ma di metafisica altra, diversa. Non si tratta di cercare una real­tà esterna agli operai, a tanti esseri umani che convergono su certi caratteri, e poi pretendere che questa realtà esterna spieghi le loro somiglianze. Ma neppure si tratta, una volta notate dall’esterno e a posteriori le somiglianze, di lasciarle inspiegate, perché una metafi­sica screditata le considera accidentali. Piuttosto, gli operai esprimo­no, manifestano, palesano una realtà interna, una vocazione. Una vocazione nuova. Una vocazione a vivere in un certo modo e quindi a dare al mondo un assetto coerente con tale novità. Una vocazione – traducendo arbitrariamente Gestalt con questo termine – che con ogni evidenza non nasce dalle forme storiche esistenti, ma contro di esse, e dunque ha una sua elementarità, una profondità tutt’altro che accidentale. Questo è il livello di analisi del libro di Jünger, con tutta la sua abissale distanza dal terreno politico e sociale.

Tuttavia, solo nel terreno politico e sociale, nell’agire storico, si attua il comportamento degli operai, e solo da questo terreno si può risalire alla loro Gestalt. Nella storia la vocazione si manifesta come suggerimento che prende corpo nell’azione concreta, in rap­porto al presente e al passato, determinandosi, storicizzandosi. Pro­iettata verso il futuro, da cui trae il senso delle sue scelte, si manife­sta in rapporto all’era della borghesia e della sua crisi.

Che l’Operaio rappresenti la causa della crisi borghese, è tesi dif­ficile da sostenere, e certamente poco importante qui. Di sicuro, è un problema di secondo piano rispetto al fatto dell’irriducibilità delle due figure, il Borghese e l’Operaio, costitutivamente contrapposte: «Tra il borghese e l’operaio la distinzione non è soltanto di epo­ca, ma soprattutto di rango. L’operaio, cioè, è in rapporto con forze elementari di cui il borghese non ha mai avuto neppure il presentimento: neppure della loro pura esistenza… L’operaio, nelle radici profonde del suo essere, ha la vocazione a una libertà totalmente diversa dalla libertà borghese». Che sia una libertà inquietante, è un altro discorso: siamo nel quadro di una pura descrizione, prima ancora che nel momento del­l’approvazione o della condanna.

L’Operaio è in rapporto con forze elementari; il Borghese no. Che significa questo, e perché?

Il Borghese ha avuto una concezione parziale della vita, non si è attenuto a come la vita è di fatto, ma ne ha rifiutato certi aspetti, li ha negati e rimossi, e ha costruito un mondo – sociale, politico, cultu­rale – come se tali aspetti non esistessero, come se non fossero ele­menti formalmente costitutivi della realtà. Per questo ha ottenuto un esito che non poteva prevedere: ha «compresso» la realtà umana in forme di esistenza in cui tali elementi non potevano manifestarsi o esprimersi. Ma negarne la realtà non equivale a ridurli al nulla: essi sono.

Tutto ciò che il Borghese ha definito assurdo, immorale, illuso­rio, irrazionale, è rimasto lì dove è sempre stato, nella natura umana; e non vi è rimasto inerte: non possiede un essere inerte; sono ele­menti che operano. Non tutti accettano di ridurre la propria vita al ri­stretto orizzonte del lavoro salariato e del consumo indotto dalla pubblicità. Si potrebbero sentire altre esigenze; si potrebbe disprez­zare che tali esigenze siano ridotte a ulteriori occasioni di guadagno, si potrebbe avere insofferenza per la riduzione delle relazioni umane alla mera compravendita di beni. Uno potrebbe aspirare a un’esisten­za in cui l’ultimo strillo della moda sia un gioco e non un valore as­soluto e significante. E non avendo a disposizione nulla che non sia incluso in un listino prezzi, potrebbe anche decidere di prendere a calci in bocca se stesso o l’intera umanità. Il Borghese ha negato, e quindi compresso, la parte «pericolosa» dell’essere -pericolosa dal suo punto di vista – e ora che questa parte rivendica i suoi diritti, non sa come fronteggiarla. Probabilmente, in primo luogo non sa come fronteggiarla in se stesso, nella sua stessa esistenza borghese. «È difficile negare l’effetto dirompente che quegli elementi hanno sul­l’ordine sistematico caro al borghese, poiché tutte le categorie di va­lori che egli potrebbe opporre a quell’urto sono di basso livello».

Orbene, l’essenza dell’ordine borghese, quale si è storicamente concretizzato, è nell’identificazione di stato e società. Ovviamente, la società e lo stato in esso concepiti come termini intercambiabili: le relazioni umane basate sulla responsabilità sono state trasformate in «rapporti contrattuali con possibilità di rescissione». Ma ora non si possono contrapporre negoziati e trattative all’irruzione dell’ele­mentare nell’esistenza borghese. Irrompendo nella storia, dunque, la nuova forma umana è naturalmente spinta verso la distruzione del­l’ordine borghese.

L’era borghese è «condannata a morte». La sua sola possibilità di sopravvivenza sta nell’imbrigliare la nuova figura, nel darle un ruolo all’interno dell’ordine borghese e salvare appunto quest’ultimo come ordine: produrre dalla materia prima dell’Operaio una sua docile e depotenziata caricatura. Ma ciò va contro la reale natura di una Ge­stalt. Essere operaio non è una qualifica meramente economica. La figura sociale del lavoratore, la classe operaia, è il tentativo borghe­se di imbrigliare e depotenziare la Gestalt dell’Operaio, soggiogan­dola alla dittatura dell’economia in quanto tale.

Fare dell’Operaio una figura meramente economica significherebbe salvare la gerarchia borghese che ha assegnato il rango più elevato alla sua concezione dell’economia: un’economia che si suppone scientifica, dotata di leggi proprie, che dunque dovrebbero imporsi anche all’O­peraio. Ridotto a figura economica, questi sarebbe condizionato nel suo agire dalle leggi economiche, dai processi produttivi immodifi­cabili. È storia dei nostri giorni: «Ciò che occorre vedere con chiarezza è l’esistenza [nell’ordine borghese] di una dittatura del pensiero economico in quanto tale, il cui ambito comprende ogni possibile dittatura, ma adattandola al proprio metro… Il centro di questo cosmo è costituito dall’eco­nomia in sé, dall’interpretazione del mondo in senso economico».

Tutto è monetizzabile e tutto deve produrre profitto a vantaggio di alcuni: ecco la dittatura dell’economia. Se si accetta questa pre­messa, l’ordine non può più essere cambiato; qualunque modifica si possa fare è contingente e accessoria, interna al sistema.

Può riuscire questo progetto? Jünger ritiene di no: «L’economia non è una forza destinata a conferire libertà». L’Operaio ha una vo­cazione alla libertà, ha un contatto con l’elementare compresso nel mondo borghese e non può adat-tarvisi: «Un significato economico non può spingersi fino a toccare gli elementi della libertà e a pene­trarli». È un «mistero». Il Borghese perde sul piano metafisico. Ma questo non comporta direttamente la sconfitta politica: per esempio, non garantisce che non muoia Sansone con tutti i filistei. L’economia domina interamente la vita. Negarlo significa «contesta­re una gerarchia di valori, non l’esistenza». E tuttavia, questa conte­stazione si fa nel concreto e quindi nel politico:

Sforziamoci di possedere un’esatta conoscenza di noi stessi. Ciò che dobbiamo cercare non è la neutralità economica, non è l’ac­cortezza di distogliere lo spirito da ogni scontro economico; al contrario, a quegli scontri è necessario dare la massima asprezza. Questo però non accade finché l’economia fissa le regole della battaglia; accade quando una legge superiore, regolando il com­battimento, stabilisce anche le norme dell’economia.

Che l’Operaio si faccia «parte» sociale, o classe sociale, è perciò inevitabile. Ma decisivo è che questa classe non accetti le regole del gioco vigenti e agisca in nome di una legge superiore all’economici­smo, in nome di una visione che include una diversa concezione del­l’economia. La classe è decisiva solo se anima le sue rivendicazioni con questa legge. L’Operaio, non identificandosi con i processi eco­nomici borghesi, può aspirare al dominio di tali processi.

Questa forma, o Gestalt, esiste realmente negli operai? nelle per­sone concrete che manifestano caratteristiche tali da far pensare a un nuovo tipo umano? Non è una domanda semplice.

Il movimento operaio non è la formazione politica cui dà vita l’Operaio descritto da Jünger. Ma l’Operaio di Jünger deve confron­tarsi col Borghese, soprattutto sul terreno dell’economia, e questo non esclude la creazione di formazioni politiche antiborghesi. In tal caso, la radicale novità dell’Operaio come forma o vocazione impo­ne che tali formazioni non abbiano un carattere reazionario. È un punto che l’interpretazione «tradizionalista» di Jünger non ha preso in sufficiente considerazione.

Né Comte né Marx hanno mai pensato che l’operaio fosse una nuova Gestalt. Il proletario non sarebbe una nuova figura storica, ma una vecchia figura che rivendica un nuovo ruolo. Per Comte, il proletariato è restato ai margini delle vicende storiche, quindi è ri­masto più vicino al naturale buon senso umano che la filosofia posi­tiva deve in qualche modo recuperare. È il primo depositario di un ethos destinato a diventare patrimonio comune dell’umanità. Anche per Marx l’ethos del proletario darà forma alla società nuova, ma è un ethos che egli ha sempre avuto. La dialettica della storia fa emer­gere il ruolo politico dell’ope-raio, e questa è una novità: il proletaria­to non è mai contato nulla in passato. Ma è ancora una novità nel ruolo: l’umanità che il proletario apporta alla società è sempre stata sua, lo ha sempre caratterizzato. Essere proletari non sarebbe una nuova vocazione, ma un vecchio dramma, un’antica condanna. Un’ingiusti­zia.

Ora, Jünger non nega affatto tale ingiustizia. Dice una cosa di­versa: che nel movimento operaio non c’è solo il momento della ri­bellione. Perché questa ribellione rivela, manifesta, un elemento in­terno nuovo, appunto una nuova vocazione. Che il movimento ope­raio si organizzi attorno a rivendicazioni economiche, è un fatto. Ma tanto in Comte quanto in Marx l’ethos proletario include una conce­zione dell’economia diversa da quella borghese. Si tratta di sapere se questo ethos poggia su una forma nuova.

Un punto di forza del movimento operaio è stato l’unione dei la­voratori in quanto lavoratori, indipendentemente dalle specifiche at­tività o mestieri di ciascuno. È il salto dalla visione corporativa pre­moderna all’idea delle grandi centrali sindacali: dalla difesa del me­talmeccanico in quanto metalmeccanico e, a parte, del maestro in quanto maestro, si passa alla difesa del lavoratore, sia esso maestro o metalmeccanico. Con il complicarsi della struttura sociale, la clas­se operaia, o dei lavoratori, diventa composita, accoglie in sé molte figure diverse per capacità e tipologie di lavoro. In senso rigoroso, nelle società occidentali i proletari sono oggi una minoranza, ma i lavoratori no. Questa articolazione interna alla classe lavoratrice consente di vedere in essa non solo una parte della società ma un complesso mondo sociale, quasi una società alternativa, dotata di un suo ethos e capace di costruire rapporti sociali diversi. In via di prin­cipio, il possente sistema economico delle cooperative rosse in Ita­lia, pur essendo un fatto di ordine economico, segue una concezione diversa dell’economia, che non condivide l’interpretazione borghese delle nozioni di utile o di profitto, ed anzi mira a incarnare nell’organizzazione il valore della solidarietà contro lo sfruttamento. Dunque, se nella storia politica del movimento operaio non si è rivendicato il carattere di Gestalt, è pur sempre diventato basilare il concetto di lavoro in senso ampio: cioè il prestare un’opera, indipendentemente dal modo in cui avviene, dal mestiere effettivamente svolto. Una centrale sindacale non rappresenta solo i proletari, ma il lavoratore in quanto tale.

Nel presente, questo schema è saltato. Il marxismo e le sue pro­iezioni politiche più o meno fedeli, non hanno conseguito l’unione politica di tutte le categorie, e le centrali sindacali non hanno potuto difendere contemporaneamente categorie di lavoratori che, nell’ordi­namento economico vigente, sono contrapposte: operai e quadri, o quadri e dirigenti, ecc. Di conseguenza, nella società sono nati sin­dacati e movimenti politici fondati su premesse franca-mente corpo­rative, o si è manifestata una spinta verso forme di democrazia più diretta, con cobas e fenomeni analoghi. Il che significa che l’unità del lavoro in quanto lavoro è andata smarrita. E con essa si perde anche il potenziale di alternativa di sistema legato al movimento operaio o movimento dei lavoratori. In altri termini, è venuta meno la diversa concezione dell’economia, a vantaggio della rivendicazio­ne di altri ruoli all’interno dell’economia esistente. E da ultimo, il concetto di classe è stato ritenuto inutile o invecchiato. Il che sareb­be semplicemente disperante, se in fondo non avesse ragione Jün­ger: l’Operaio è una nuova Gestalt. Ovvero: l’Operaio è un aspetto unitario nelle figure dei lavoratori, al di là di tutte le differenze nelle loro manifestazioni.

Ritengo che l’Operaio sia una nuo­va vocazione, nel senso orteghiano del termine: una varietà umana. Non è difficile convincersene, perché c’è un elemento di radicale no­vità oggi nel modo di concepire il lavoro, la professione, il mestiere.

Accantoniamo alcuni casi di vocazioni particolari, che ora non sono influenti: il prete, lo scrittore, il filosofo… lasciamo da parte anche coloro che effettivamente sentono la vocazione per un deter­minato mestiere: il medico, l’avvocato, mestieri che possono comun­que essere esercitati anche da chi non ne senta la vocazione. Resta la maggioranza dei casi, in cui uno non presume affatto di realizzarsi in un certo lavoro. Si cerca «il posto», non perché questo posto sarà realizzante, ma semplicemente perché permetterà certe possibilità, consentirà di fare molte cose che non sono più «lavoro». E queste altre cose sono realizzanti. È un topico letterario pensare che tutti i dipendenti di banca siano alienati, anche se è difficile pensare che uno nasca con la vocazione a fare il bancario. Semplicemente, lavo­rare in banca gli consente di fare altre cose: la settimana bianca, le ferie d’estate, la casa dignitosa, l’auto, il cinema… ed è ipocrita di­sprezzare questo stile di vita «edonista»: bisognerebbe ricordarsi che il livello di vita medio dell’occidentale odierno consente possibilità di azione riservate un tempo solo alla parte più ricca della società. Il che è assolutamente positivo, da qualunque punto si guardi la questione.

L’elemento di novità sta dunque nel fatto che, generalmente, il lavoro non è più considerato come vocazione. Questo significa sem­plicemente che c’è un’altra vocazione, all’interno della quale è cam­biato il significato assegnato al lavoro nel progetto di realizzazione personale. Non si tratta di una vocazione al non lavorare, bensì a un lavoro comunque, finalizzato al conseguimento di mezzi per fare al­tro: un «altro» che ognuno vuole decidere da sé. L’Operaio chiede naturalmente di intervenire sulle condizioni di lavoro, per la sua sa­lute, per l’orario, per la retribuzione… Dove questi problemi hanno raggiunto una soluzione ritenuta accetta-bile, la specificità del lavoro passa in secondo piano. Lo si sente ripetere spesso: è un buon posto, offre molte possibilità. Queste possibilità importano, e con esse ci si realizza. E la realizzazione, a sua volta, significa attività sociali oltre che private: campi di attività. A volte si ha l’idea che la gente non ami più l’otium... e non c’è definizione migliore di questa per la Ge­stalt dell’Operaio: non amare l’otium, cioè amare altre cose, essere un’altra vocazione consistente in un fare incessante.

Ma se questa è un’idea contro Marx (per modo di dire), debbo aggiungerne una contro Jünger: io credo che anche il Borghese sia una Gestalt, e non potrebbe essere altrimenti. E ai suoi tempi fu una nuova Gestalt.

Se il Borghese ama la vita comoda, razionale, operosa, è perché appunto la ama, è il suo progetto vitale e in essa si realizza. Che il primato dell’economia sia una perversione, non significa affatto che l’agire economico del Borghese non sia governato da una vocazione all’intrapresa, all’attività imprenditoriale. Che tale intraprendenza ab­bia travalicato ogni limite e confine, dipende dal fatto che non ha trovato la necessaria resistenza, e non dal fatto che non sia retta da un progetto vitale serio. Ne deriva che lo scontro tra il Borghese e l’Operaio è scontro tra due concezioni del mondo irriducibili e alter­native. Si combatte sul terreno dell’organizzazione della società e, prioritariamente, sull’aspetto economico dell’organizzazione.

È evidente che con il riconoscimento della Gestalt del Borghese si ha il pieno recupero del Marx che avevamo accantonato. Ma non si abbandona la posizione di Jünger: è superficiale pensare che il conflitto tra le due figure debba concludersi con la scomparsa di una delle due. Marx non lo ha mai pensato. La sintesi dialettica del co­munismo non consiste nella soppressione di uno dei due termini del­la contraddizione, cosa che non sarebbe affatto una sintesi. È piutto­sto la trasformazione di entrambe le figure storiche in una società nuova, una società senza classi, nella quale appunto scompaiono tanto il capitalista quanto il proletario. La dittatura del proletariato è la metafora indicante la lotta politica per ottenere una legislazione comunista. Il capitalista si opporrà a questo processo ma inutilmen­te, secondo l’utopia marxiana. E la legislazione comunista, per l’inte­razione tra strutture economiche e sovrastrutture culturali, produrrà un nuovo sentire, una nuova cultura che trasformerà l’intera società: la borghesia perderà l’istinto di classe, senza per questo dover perde­re il gusto per l’intrapresa, per la progettazione e la realizzazione di un’attività economica. È un’altra splendida utopia marxiana.

Ma questa utopia coglie un punto fondamentale presente anche in Jünger. Per il Borghese, l’Operaio va distrutto: è incompatibile, è una minaccia, una sovversione dell’ordine. Invece, per l’Operaio l’e­conomia è un fare, ha uno spazio: anche l’intrapresa è un operare, cioè una forma di lavoro. Il carattere di lavoro della Gestalt dell’O­peraio può esplicarsi anche come impresa, dentro il contesto di una diversa concezione dell’economia e del suo rango. Il carattere di lavoro attraversa trasversalmente tutte le figure sociali. Non si tratta di vocazione a «un» lavoro, ma del lavorare come vocazione.

È difficile definire il rapporto tra l’Operaio e un’altra figura di Jünger: l’Anarca. Sembrano personaggi antitetici, a prima vista, ma non è detto che lo siano. L’Operaio è certamente vicino a un’organiz­zazione collettivista che sembra allontanare dalla visione anarchica. Ma non si tratta di collettivismo inteso alla maniera borghese, che poi lo condanna. L’operaio, come membro di movimenti operai, non è precisamente l’Operaio come figura o forma, ma questo traspare in quelli. Pertanto il collettivismo, quale lo si è visto nel socialismo co­siddetto reale, non è direttamente collegato all’Operaio come Ge­stalt.

L’Operaio ha un forte senso della persona, che non è contraddit­torio con l’atteggiamento interiore dell’Anarca. Tutto dipende dalla possibilità di avvicinare entrambi da una prospettiva di sinistra o di destra. Che Jünger si sia volontariamente sottratto alle categorie po­litiche di destra e sinistra non impedisce che queste possano essere usate come chiavi di lettura.

Partendo da destra, ciò che risulta di Jünger è la sua proposta di salvare alcuni valori, separandoli dalle realtà stori-che che li incarna­vano. I valori tradizionali sono trasformati in valori personali: la tra­dizione è morta, io sono la tradizione. Rettamente inteso, questo at­teggiamento non ha nulla di superomistico e comporta l’abbandono della visione di destra. Sulle premesse della cultura tradizionale, Jünger costruisce una visione coerente con la tradizione, ma basata sull’assunto della morte del tradizionalismo. Resta l’individuo solo, con i valori che erano stati tradizionali. Perché si prende la briga di restare con questi valori? Non perché sono, o furono, tradizionali, ma perché sono validi. In conseguenza del fatto che sono validi, si era avuta la loro acquisizione da parte della tradizione. Ma un valore divenuto personale, fuori dalla tradizione, è necessariamente un va­lore mio, senz’altra giustificazione che la mia adesione: esattamente come avviene per i valori altrui. La rinuncia alla tradizionalità è la rinuncia al postulato immemoriale della loro superiorità come valo­ri. Ecco perché si esce dalla prospettiva di destra. Cosa accade, leg­gendo Jünger da sinistra?

Par di capire che Jünger ponga solo tre figure, nel mondo con­temporaneo, realmente dotate di una loro legittimità storica: l’Opera­io, l’Anarca e il Bandito. Ci sono altre figure, ma non godono di pie­na legittimazione.

Però, basta cambiare di poco il punto di vista per osservare che si tratta anche di tre modelli di comportamento che ognuno può adotta­re, passando dall’uno all’altro. Dipende dal punto in cui ci si colloca. Questo ci svela la possibilità che le tre figure abbiano una loro interna unità, e che siano, in ultima analisi, tre «aspetti».

L’ideogramma dell’Anarca, in Eumeswil ha due segni principali:

  1. «Là dove tutti si muovono, e per giunta nella medesima dire­zione, sia a destra che a sinistra, verso l’alto o verso il basso, chi se ne sta quieto disturba»;
  2. «Neutralità interiore. Si è partecipi quando e quanto se ne ha voglia. Se nell’omnibus non si sta più comodi, si scende».

L’Anarca non crede al contratto sociale. Non crede alla buona fede di politici e governanti. Che le idee da essi propugnate siano valide, non è premessa da cui consegue che debbano essere appog­giati: non è lo stesso sostenere un’idea e appoggiare il sostenitore dell’idea. La caratteristica dell’epoca è la presenza del politico come mero manipolatore di sostenitori di idee: il demagogo, la politica come finzione. Si mobilita la gente alla lotta contro un nemico ideo­logico, ma in realtà si mira a conseguire altri obiettivi e la mobilita­zione diventa merce di scambio. L’Anarca si sottrae al gioco, non si fida, non delega nulla a nessuno. Non riceve da nessuno gli obiettivi della lotta, perché li ha già. Non è detto che partecipi allo scontro. È semplicemente sovrano di se stesso, libero. Si sottrae all’identifica­zione borghese di stato e società, o forse se ne disinteressa e si limi­ta ad amministrare il suo territorio personale. Solo in modo parziale può essere considerato un oppositore: non è motivato dall’agire-con­tro, non ha l’obiettivo di distruggere il re, anche se in via di principio potrebbe dichiarargli guerra. Magari per gioco.

Come ogni uomo, l’Anarca ha una «struttura anarchica di base». È un elemento generalmente represso e spesso inconscio, che può emergere in molti modi e dare luogo a diverse forme di vita. Ciò che normalmente si chiama «anarchico», «anarchista», è solo uno di questi modi. Nel suo fondo, l’anarchia è l’essenziale libertà umana non delegata ad altri. È un contatto sovrano con se stessi, con la pro­pria autenticità, e non con un «se stesso» imposto dal potere. Pertan­to, l’Anarca non è individuabile: dalla sua sovranità deriva strategie di azione e comportamento imprevedibili. Non è l’antagonista del monarca, ma la persona più lontana da lui. Non vuole dominare molti uomini, ma solo se stesso. In via di principio, questo non gli proibisce l’azione, né gli preclude la possibilità di avere una coscien­za sociale, un progetto di società. Ciò che lo definisce è solo la pre­messa della sua libertà non delegata. Che non si senta difensore del mondo in cui vive, dipende dalla sua libera valutazione di questo mondo. Ma anche se il mondo fosse diverso, ed egli lo difendesse, dipenderebbe da una sua libera scelta e non da una obbligante coe­renza tra concetti.

Questo definisce il suo rapporto con la tradizione: non è il suo ultimo difensore, un tradizionalista senza tradizio-ne vigente. È libe­ro rispetto alla tradizione, la tratta con la stessa libertà con cui tratta il monarca: «In quanto anarca, io mi sono deciso a non lasciarmi catturare da nulla, a non prendere in fondo nulla sul serio -non in modo nichilista, ma piuttosto come una sentinella di confine, che in terra di nessuno aguzza occhi e orecchie». È una difesa sul confine della propria libertà, che è previa alla scelta di essere o non essere in un certo modo. Secondo un’antica immagine metafisica, è la libertà come gioco. La persona «scrive un testo sopra una pagina bianca, e domina il destino».

Però, definire la figura dell’Anarca ricorrendo alla sua libertà è problematico. La libertà, come nota costitutiva della persona, è un elemento tra i tanti che concorrono a definirla o è l’elemento per ec­cellenza, l’unico propriamente umano? Non è una domanda facile. È accettabile che l’uomo sia libero e che questa libertà basilare sia un elemento anarchico. Ma cos’è la libertà? È solo potere? poter fare, poter decidere…? O il poter fare è un aspetto della libertà?

Libertà è lo iato strutturalmente presente tra le azioni umane e gli stimoli. Iato è espressione molto efficace di Gehlen. Un cane non ha questo iato. Sta facendo una cosa qualunque, passa una cagna in ca­lore e questa situazione lo stimola e al tempo stesso lo condiziona: lascia ciò che sta facendo e corre dietro alla cagna, non può esimersi dall’andarle dietro come uno scemo, con un codazzo di altri cani scemi come lui. Tra lo stimolo e il comportamento di risposta non c’è quella pausa, il momento tutto personale di sovranità, nel quale si può decidere di non soddisfare lo stimolo. Se una ragazza di pas­saggio suscita pensieri erotici in un uomo, questi può evitare di ac­codarsi. Così, da un certo punto di vista, l’uomo è strutturalmente li­bero dal sesso: proprio per questo ha una vita sessuale che l’animale non ha; non è condizionato a soddisfare il suo desiderio solo in certi momenti biologici, e grazie a questo può determinare la sua azione, essendo in qualunque momento libero per il sesso. È un topico filo­sofico: la libertà-da ha come rovescio la libertà-per.

Orbene, il «per» dell’Anarca rimane sospeso, non individuato. L’Anarca è intanto uno che dice: io sono libero-da. Dunque, che farà in questa sua condizione? Qualcosa deve pur fare: non può fare tut­to. E qui c’è un punto chiave.

La linea più breve tra due punti è una retta. Dunque, per unire gli stipiti di una porta è del tutto illogico costruire un arco. Però è este­ticamente valido. Tuttavia, ciò che gli esteti dimenticano spesso è che gli archi debbono comunque sostenere un peso: altrimenti non sarebbero una soluzione valida, nemmeno sul piano estetico.

È del tutto illusoria un’idea che da lungo tempo si ripete nel filo­ne di pensiero che vuole attraversare il nichilismo. Se Dio non esiste – si dice con una citazione famosa – allora tutto è permesso. Il concet­to si ritrova anche in Jünger: «Dove tutto è possibile, è anche possi­bile permettersi di tutto». Il che è vero solo in apparenza.

Certo, senza più etica vigente, io posso ora guardare la televisio­ne o, indifferentemente, andare a rubare, o fare qualunque cosa, col semplice arrogarmi la sovranità di decidere cosa mi è lecito. Benis­simo. Il problema è tutto in questa piccola parola «o»: io posso solo fare una cosa alla volta, e ogni mio fare occupa tempo. Alla fine del­la vita, pur con ogni buona intenzione, non sarò riuscito a fare tutto il possibile, ma solo ciò che ho scelto tra tante possibilità: scegliere A equivale a escludere B, se vado a rubare, non posso guardare la televisione. Dunque, formalmente, neanche in pieno nichilismo è possibile tutto. Formalmente, la libertà-da implica la libertà-per, e il «per» è la necessità di scegliere tra A, B, C, …N. Allora, la libertà di scegliere implica un criterio di scelta.

La questione non è ora collocata sul piano morale e non do alcu­na valutazione del criterio. Dico solo che il nichilismo non elimina la necessità del criterio, perché questa è intrinseca alla libertà. Si po­trebbe dire: il criterio è fare quello che mi va, quando mi va. Bene. Allora, però, perdo la libertà: mi ritrovo in una situazione perfetta­mente identica a quella del cane che, vedendo la cagna, sente che gli va di seguirla e la segue. Vado a rubare perché mi va, ma nel frat­tempo vedo passare una bella donna, e allora mi vanno altre cose: o seguo questa nuova voglia, e perdo la libertà, o non la seguo, e allo­ra la mia libertà richiede un criterio. Vale a dire che il criterio è ri­chiesto dalla libertà stessa o, con altro linguaggio, la libertà obbliga a gestire le pulsioni. E la gestione delle pulsioni è sempre costosa. Continuando a non entrare in campo morale, e saltando alcuni pas­saggi intermedi, è chiaro che il criterio di scelta è sempre un’inter­pretazione del mondo e della vita. Posso cambiarla domani, ma solo con un’altra interpretazione che coinvolga il mondo e la vita. Questa interpretazione è il mio senso morale (o immorale) dell’esistenza. Sarà pure un’interpretazione liberamente costruita, ma non cessa di essere condizionante: mi condiziona nella scelta tra A o B, proprio per consentirmi di fare A oppure B. A invece di B, o viceversa.

Pertanto, è astratto definire l’Anarca attraverso la mera condizio­ne di libertà-da: questa ci dice solo che cosa non è l’Anarca. Non è condizionato dall’esterno. Ma non ci dice chi è, che vuol fare, quale progetto lo definisce. In tal senso, potremmo pensare che l’Anarca può essere uno qualunque. Anche un Operaio.

Nel testo di Jünger, ciò che realmente definisce l’Anarca è il fatto che ha un progetto, un’interpretazione dell’esistenza; ma questo pro­getto non è realizzabile. Vive in un mondo globalmente estraneo al suo universo di valori. Perciò non ha obblighi verso questo mondo e verso questi valori che gli sono estranei: «La mia situazione odierna è quella di un tecnico in un’impresa di demolizioni, il quale, in tanto vi è impegnato in buona fede, in quanto i castelli e le cattedrali, e finanche le vecchie case bor­ghesi, da tempo sono state distrutte». In questa condizione è vero che non si hanno obblighi nemmeno verso i propri morti. Tuttavia uno continua ad avere obblighi verso se stesso. Invece di partecipare all’impresa di demolizioni, potrei an­dare al cinema «o» astenermi dall’agire «o» suicidarmi «o»… Ma se sono impegnato nell’impresa di demolizioni, debbo giustificare a me stesso questa scelta, per non fare la fine del cane con la cagna: deve essere una scelta che trovo soggettivamente coerente con la mia concezione globale. Altrimenti sarei uno che perde il suo tempo in incoerenze. Ed è questa interpretazione globale a definirmi come fi­gura, non l’atto contingente del demolire.

«Prendo sul serio le mie occupazioni in un ambito complessivo, che rifiuto nella sua insufficienza. Importante è il fatto che tale negazione investa appunto l’insieme, senza assumere in esso, in­vece, una posizione conservatrice, o reazionaria, o liberale, o iro­nica, o comunque in qualche modo socialmente definibile»: ma questa insufficienza è tale solo alla luce di un’idea della suf­ficienza; il mondo odierno appare senza valore alla luce di un’idea del valore. Questa idea del valore e della sufficienza è il lato positi­vo e giustificativo della figura dell’Anarca. L’Anarca ha un valore, ha una vocazione, ma vive in un mondo globalmente senza valore. Per questo non accetta compromessi e non sposa nessuna delle posi­zioni che emergono all’interno di questo mondo. Svaluta il mondo attuale nel suo insieme.

Qui è molto importante e ricca l’idea della globalità: non c’è qualcosa di valido che possa contrapporsi a questo mondo, salvo ap­punto la singola persona, che non ha altra scelta se non l’estrania­mento, l’esistenza libera senza mondo, incoerente e insolidale col mondo circostante. Il positivo dell’Anarca è il suo essere una voca­zione negata da un universo globale, e priva delle più elementari possibilità di realizzarsi.

Però questo ha un risvolto grave. Per me, può essere privo di si­gnificato politico il lavorare nell’impresa di demolizioni (con ciò che rappresenta metaforicamente). Ma in sé non lo è. In sé, e fin quando ci lavoro, sostengo il tiranno. Un conto è che io lavori di malavoglia, con ostilità o resistenza passiva. Un altro conto è che io sia indiffe­rente. Un conto è non avere interesse all’uccisione del re, un altro è giustificarsi in qualche modo perché non si ha la possibilità di farlo: perché il nuovo re sarebbe identico a quello precedente. In tal caso, il problema non sarebbe «il re» ma l’istituzione, l’assetto di potere che può essere gestito da persone intercambiabili. Cioè l’impresa di demolizioni in cui lavoro, sì, ma con distacco. Il problema, in ultima analisi, è che una persona senza «mondo» non esiste: se questo mondo non mi piace, non posso dire, come la volpe della favola, che l’uva non è matura e andare da un’altra parte; io, persona concreta, non ho un’altra parte che non sia il mio «mondo», non posso vivere fuori da un mondo. E il mondo è sempre quello di adesso, quello in cui sto, quello che è qui. Non è questione di sopprimere il re, ma di cambiare il mondo che esprime il re: altrimenti non posso essere me stesso, perché non può esistere un «me stesso» senza mondo. La si­tuazione dell’Anarca risulta definita dall’impotenza se abolisce la differenza tra essere contingentemente impotenti ed essere di fatto complici. Cioè il positivo dell’Anarca, se vuole essere una cosa se­ria, include la ribellione. E la ribellione è l’inevitabile libertà-per dell’Anarca.

Questo aspetto è presente in Jünger: «Tale è il ruolo dell’anarca, che resta libero da ogni parte, avendo tuttavia la possibilità di vol­gersi da qualsiasi parte». Deve pur volgersi. E la sua condizione di libertà ha senso se include una dimensione di ribellione. L’Anarca è stato bandito dal mondo: si tratta solo di rendere esecutiva la con­danna, cioè di catturare gli anarchi. A questo non può essere inte­riormente estraneo: deve cercare di non farsi catturare. Dunque è un Bandito. La via d’uscita da sinistra dai conflitti contemporanei è la categoria della ribellione, perché questa include un senso della normalità che smaschera il mondo come abnorme.

Non si creda che abbia fornito una rappresentazione più o meno libera dell’Anarca. Più che altro mi pare che si tratti dello sviluppo di un positivo, partendo dal negativo. La chiave di lettura è l’agente chimico che rivela l’immagine positiva, che si trova nel testo. In ef­fetti, l’Anarca è descritto come un «combattente»: «L’Anarca esplica le proprie guerre anche quando marcia allineato nei ranghi con gli altri». Ha un suo modo di combattere, che è etico: rifiuta la bomba e l’attentato anonimo. «Egli lotta solo, da individuo libero, che è ben lontano dal desiderare il sacrificio perché una incapacità si sostitui­sca a un’altra, e un nuovo potere trionfi su quello antico». Lotta, per­ché ha la dimensione della ribellione. «L’anarca è il ribelle singolo», dice Jünger. Non solo, ma l’anarchia è un elemento presente in ogni tempo: anche Cristo era un Anarca, per Jünger. Allora, questo signi­fica che la lotta dell’Anarca non riguarda questo mondo odierno, ma qualunque mondo falso del presente o del passato. E in fondo, il mondo odierno è falso come ogni mondo istituito, stabilizzato, cri­stallizzato: ogni mondo che, indipendentemente dai suoi valori fon­danti, vuole imporre modelli di comportamento alla persona, contro la sua naturale libertà sovrana. Ogni mondo tende a rendere la per­sona funzionale ai suoi meccanismi. Lo specifico del momento pre­sente è che il mondo falso vigente non ammette alternative. Così, si partecipa all’impresa di demolizione non perché non ci sono più le cattedrali, ma perché non è più possibile costruire nulla di valido.

Il massimo a cui si aspira è sostituire la cattedrale con un par­cheggio, un supermercato, un condominio: situazione ben diversa da quella in cui si mandò in rovina il romanico per far posto al gotico. All’epoca, i tradizionalisti si scagliavano contro l’inaudita novità ar­chitettonica, ma gli anarchi disegnavano i progetti o dirigevano i cantieri. Oggi non c’è nulla da disegnare: il processo si presenta in tutta la sua irreversibilità. Demolire per demolire, diventa allora una possibilità: quando tutto sarà a terra, si demoliranno anche i super­mercati, chissà. Questo è il giudizio dell’Anarca, dentro un romanzo che descrive un mondo di nichilismo compiuto e irreversibile. E questo è il punto chiave: in che misura quel romanzo è lo specchio fedele della nostra epoca? In che misura il nostro tempo ha realizzato la condizione descritta in Eumeswil? In che misura l’Anarca è una realtà presente, anziché una possibilità del futuro, magari ancora esorcizzabile? E in che misura la sua ambiguità è la descrizione letteraria di un mondo in cui hanno fallito tanto il Bandito quanto l’Operaio? Ma è poi vero che hanno già fallito?

Quando ci spostiamo a considerare la figura del Ribelle, l’Anarca non esiste più, non se ne fa menzione, come se fosse stato assorbito dalla nuova figura. Nel Trattato del ribelle Jünger dice che le figure del nostro tempo sono tre: il Lavoratore ovvero Operaio, il Milite Ignoto e il Ribelle. Ma il Milite Ignoto appartiene alla terra: alla par­te passata della storia. Potrà ispirare atti storici, ma non può com­pierli. Restano le altre due figure, che in nessun modo sono contrap­poste: «Viviamo nell’epoca del Lavoratore, sono convinto che questa tesi, col passare del tempo, è diventata più chiara. La via del bo­sco crea all’interno di questo ordine il movimento che lo diffe­renzia dai modelli zoologici». Dunque il Ribelle, l’uomo che percorre la via del bosco, come anima del Lavoratore. Come possibilità unica che la sua epoca abbia un volto umano. Il Lavoratore compie il tentativo di dominare il mondo attraverso la tecnica. Il Ribelle è il tentativo di dominare la tecnica assoggettandola al diritto e alla libertà. In questo senso deve «dominare la partita». Se è costretto a «dare battaglia», per salvarsi, tuttavia è questo l’unico senso che la battaglia può avere: «Non sarebbe insomma possibile rimanere sulla nave e conser­vare la nostra autonomia di decisione – ossia non soltanto preser­vare ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario?».

Chiaramente non si tratta di dare un senso alla realtà storica del Lavoratore; il Lavoratore ha già un suo senso, una sua legittimità. Si tratta invece di radicarlo nell’essere, cioè di sottrarlo al nichilismo. Il destino del Lavoratore è comunque sospeso. Ha un significato, per­ché è figura, ma «significato» vuol dire «compito». Se il compito fallisce, allora si ritrova assorbito nel nulla, perde il suo significato. Non si tratta dunque di dargli un senso, ma di salvare il senso che già possiede: ed è l’unica strada per salvarsi come persone. Essere storicamente un destino che si compie, ovvero radicarsi, come enti storici, nell’essere.

Essere è una parola ambigua, che Jünger usa in contrapposizione a nichilismo. Ma non è possibile intendere il concetto di nichilismo a partire dall’essere: al contrario, l’essere si comprende partendo dal nichilismo.

Il nichilismo non è tanto l’azzeramento dei valori, quanto l’azze­ramento dei significati. Il valore non si può negare: le realtà lo pos­siedono di per sé e al massimo si può farne a meno. Ma si può mi­sconoscere un significato. Il nichilismo non fa a meno di una catte­drale gotica; anzi, la usa, come usa San Marco a Venezia, per fare soldi. San Marco «vale»: un valore economico, misurato dalla quan­tità di denaro che permette di guadagnare. In questo senso «vale» anche il parcheggio a più piani costruito all’ingresso di Venezia: «valgono» entrambi. Ma hanno questo valore, perché è stata annul­lata la differenza di significato tra la cattedrale e il parcheggio. Vale a dire che si è perduto il legame del significato con l’essere. La cat­tedrale attesta e concretizza un rapporto tra gli uomini che l’hanno costruita e l’essere. Fuori da questo rapporto, che definisce il suo si­gnificato, è solo una costruzione come tante altre, meno funzionale del parcheggio. Se non viene abbattuta, è solo perché il pensiero economico la scopre funzionale ai suoi obiettivi: è una fonte di gua­dagno. Come tale svolge lo stesso ruolo del parcheggio, benché que­st’ultimo abbia una funzionalità maggiore e più razionale. Il nichili­smo è appunto questo: azzeramento dei significati. Ma il ritorno al­l’essere, il rinnovo del contatto con l’essere in un uomo contempora­neo, non consiste necessariamente nella riscoperta del significato che quella cattedrale non ha più.

Poiché è impossibile pregarvi, San Marco risulta uno spettacolo osceno e deludente. Se qualcosa attesta il contatto del Lavoratore con l’essere, questo potrebbe essere il valore estetico di uno spot pubblicitario. Ma lo spot è uno strumento manipolante, un virus contro la libertà. Uno spot esteticamente valido, ma privo del poten­ziale corrosivo della manipolazione, rivelerebbe la mano del Ribel­le.

Il valore estetico di San Marco non è un contatto con l’essere. Ri­vela solo che chi ha costruito e abbellito la cattedrale aveva tale con­tatto. Niente di più. Ma fuori dal contatto San Marco è solo un ma­nufatto umano, un manufatto del passato. Questa è la sua realtà e pensare che possa essere restaurata come luogo di culto equivarreb­be a una negazione utopica. Ovvero, sarebbe un’altra forma di nichi­lismo immaginare che San Marco sia veramente una chiesa. In un’e­poca normale, San Marco sarebbe un oggetto da museo, abbandona­to ai pochi cultori delle cose antiche: in altri luoghi di culto si atte­sterebbe il contatto con l’essere. Tuttavia, l’uomo libero può pregare anche a San Marco: il contatto con l’essere è dentro la sua vita, nella sua stessa persona, e non lo perde quando entra in una chiesa antica. Neppure lo perde se questa chiesa sprofonda per un terremoto. Ogni manufatto umano può essere ricostruito in forma migliore. Si può fare di meglio che San Marco, e non soltanto parcheggi. Anche co­struire copie sarebbe sciocco. Essenziale e discriminante è l’ideazio­ne di qualcosa che valga la pena di costruire: la «Haas Haus» a Vienna potrebbe indicare una direzione. Questo presuppone la liber­tà. Decisivo è aver superato le barriere. Ma sarà il Lavoratore a co­struire: da qui la necessità di radicarlo nell’essere, nella coscienza del compito da realizzare, prima che il tempo a lui assegnato si esau­risca.

Bisogna pensare l’essere a partire dal nichilismo. Perché del ni­chilismo si può dire tutto, tranne che non sia. Solo allora il pensiero dell’essere potrà rendere ragione dell’apparente non essere del nichi­lismo. A ciò si arriva per esperienza. Toccare l’essere prima e fuori del nichilismo non è più possibile. Né serve un passivo starvi dentro, se i processi sono subiti.

Tornando all’Operaio, si può vedere che certi aspetti del libro sono chiariti dalle figure posteriori.

C’è una frase in particolare: «È dunque da un punto di vista borghese che gli operai nel loro insieme vengono interpretati come uno “stato”, e al fondo di que­sta interpretazione c’è un’inconsapevole astuzia che cerca di im­prigionare le nuove esigenze in una vecchia cornice, la quale do­vrebbe consentire che il gioco continui».

La condizione del possedere solo la prole – quindi l’essere sogget­ti alla necessità di mantenere la famiglia – è un prodotto dell’ascesa della borghesia: in precedenza esisteva certamente la povertà, ma la povertà era una cosa diversa dal proletariato. Non era un vero e pro­prio stato sociale, una classe. Il borghese proletarizza molte figure sociali preesistenti e le struttura in classe: cioè dà loro un ruolo su­balterno. In primo luogo, sono gli stessi borghesi a considerarsi clas­se. Distrutta la nobiltà, che imborghesisce o si caricaturizza, sotto­scritto un buon compromesso col clero, il capitalismo organizza la società seguendo le regole di un’economia di sfruttamento e trasfor­ma i subalterni in mano d’opera a basso costo. Questo è propriamen­te il Quarto Stato, la cui ribellione è considerata come mera rivendi­cazione economica: un soggetto sociale che vuole meno svantaggi, ma deve restare subalterno. Se il proletariato accetta questa premes­sa, è perduto.

Dunque, di fatto, lo scontro non è sul terreno economico: si svol­ge in esso, ma ha le sue radici altrove. E non è prefissato chi ne usci­rà vincitore. Perciò Jünger dice: «Tuttavia, la rivolta degli operai organizzati in classe o in model­lo sociale non sarà una brutta copia scolorita e di seconda mano, preparata secondo ricette invecchiate».

La vera innovazione di Marx sta nel considerare l’operaio come un soggetto politico e non più come un oggetto politico. Vale a dire che Marx non contesta soltanto le condizioni, il corrispettivo che l’o­peraio ottiene in cambio del suo ruolo, ma contesta anche il ruolo, cioè rifiuta la subal-ternità. L’operaio, ovvero il Lavoratore, può svol­gere un ruolo diverso; e se rivendica qualche soldo in più, questa ri­vendicazione è pur sempre parte di una concezione globale del lavo­ro: di ogni forma di lavoro.

Che Marx si perda nella fede nella dialettica è del tutto accesso­rio. Qui Jünger taglia corto: le discussioni su idealismo e materiali­smo sono un aspetto dell’interminabile conversazione borghese. Ma l’accessorio rivela in trasparenza il dato essenziale: l’operaio è chia­mato a sanare la contraddizione strutturale della società capitalista. Ora, se i termini dialettici sono padrone e operaio, la sintesi dialetti­ca non sarà il dominio dell’operaio sul padrone: questa sarebbe un’inversione dei termini, ma non un annullamento della contraddi­zione. La sintesi dialettica sta nella scomparsa delle due figure, il padrone e l’operaio, superate da una nuova articolazione sociale, da nuove strutture dell’economia e dei rapporti di lavoro, nel quadro di una nuova concezione dell’uomo e della società. In tal senso, negli operai traspare la figura del Lavoratore.

L’era del Lavoratore, nella pienezza della sua manifestazione, sa­rebbe priva di operai e di padroni, ma è solo l’operaio il soggetto che può instaurare tale era. Il mondo del lavoro, in quanto concretizzato nel Lavoratore, è già articolato al suo interno, non secondo l’organi­cismo dell’era tradizionale né secondo il rapporto di classe, ma se­condo l’articolazione propria al lavoro stesso, che ha una sua funzio­nalità o organicità. Per questo Jünger può parlare di operai «organiz­zati in classe o in modello sociale»: non allude all’organizzazione in un partito, un movimento o un sindacato, ma all’interna articolazio­ne del lavoro come tale. «Se si vuole osare un nuovo attacco, questo può essere sferrato soltanto in direzione di nuovi fini. Ciò presuppo­ne un altro fronte e alleati di tipo diverso. Presuppone che l’operaio concepisca se stesso in un’altra forma e che nei suoi moti riesca a esprimersi non più un riflesso della coscienza borghese, ma un’origi­nale coscienza di sé».

Futuro Presente, IV, 1996, n. 8, pp. 39-51.