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Gianni Ferracuti: Oltre Evola, Oltre Guénon: metafisica e ontologia

Oltre Evola, Oltre Guénon: metafisica e ontologia
Gianni Ferracuti

[«Oltre Evola, oltre Guénon» è un saggio pubblicato su I Quaderni di Avallon, 10/1986, pp. 89-104, poi in L’invenzione del tradizionalismo, disponibile online in edizione cartacea]

  1. Oltre Guénon

Il punto di disaccordo tra Evola e Guénon si situa a un livello molto profondo e lo si può scoprire a partire dalla concezione evo­liana della magia. La concezione che Evola ha della magia intorno al 1930 (cioè dopo la lettura di Guénon) è diversa da quella che ne ha nel 1924. Però l’interpretazione tradizionale della magia svilup­pa germi presenti già nell’interpretazione idealistica, e li sviluppa in senso non guénoniano.

Secondo Di Vona, il quale ricorda che l’intesa tra Evola e Gué­non non fu mai completa, «tutto il sapere iniziatico e magico che Evola poté adunare prima del suo incontro con Guénon, solo dall’i­dea guénoniana di tradizione ricevette ordine»[1]. Ciò è condivisibi­le, nel senso che ricevette una giusta collocazione gerarchica. Però, dalla magia collocata al suo giusto posto, Evola trae una concezio­ne dell’essere contrapposta a quella di Guénon, alla quale concezio­ne era pervenuto già nel periodo idealista, anche se rimaneva diffi­cile farla emergere dentro gli schemi e la terminologia di questa corrente filosofica. Le critiche severe di Guénon a L’uomo come potenza[2] sono indicative del livello su cui si colloca il contrasto. La frattura è sulla concezione della potenza. Nella Teoria dell’indi­viduo assoluto (stesura del 1924, per testimonianza di Evola) si parla già del Principio come potenza[3] in termini irriducibili alla metafisica di Guénon.

Nel rapporto tra il Principio e il mondo Evola distingue la for­ma della spontaneità (in cui il possibile si identifica col reale, e ciò che accade è solo ciò che poteva accadere) dalla forma della volon­tà, in cui il possibile eccede il reale. In questo secondo caso, il pas­saggio dal possibile al reale implica una decisione libera, un mo­mento di dominio e di autarchia, un potere che domina, una pote­stas in cui risiede la ragione incondizionata dell’essere o del non essere dell’atto.[4] Nel caso della spontaneità, invece, la libertà ri­sulta essere uno sviluppo privo di impedimenti esterni, ma condi­zionato internamente da un’intrinseca necessità. È quest’ultima la concezione di Guénon.

Secondo Di Vona, la spontaneità per Guénon è un carattere della libertà umana, che in ciò non ha nulla di particolare: «La libertà umana è solo un caso specifico della spontaneità che spetta in proporzioni diverse a tutti gli esseri come tali».[5] Il contrasto tra Evola e Guénon è quello tra una concezione statica dell’essere e una concezione dinamica, indi­cabile come non parmenidea. La concezione statica e immobilista causa la sorprendente cecità di Guénon per tutto ciò che «si muove», come ad esempio la grossolana inclusione della filosofia dei valori tra le «superstizioni moderne», il suo deliberato ignorare la filosofia tedesca del Novecento o quella spagnola, l’inconciliabi­lità del suo pensiero con le correnti personaliste, ecc. Per Guénon, ciò che è mutamento e instabilità ha sempre una connotazione ne­gativa, e per lui non ne sono possibili altre: «Per gli orientali, il progresso occidentale non è che mutamento e instabilità, ed è il se­gno di una inferiorità manifesta».[6] Questa entità che finisce col diventare astratta – gli orientali – ha deciso così. Per Guénon non ha importanza che certi altri orientali abbiano una concezione diversa del divenire, né che in Occidente certe vedute culminanti in Talete, Ferecide o Eraclito fossero molto più antiche del fatidico VIII sec. a. C. Platone le rintraccia in Omero, e soprattutto le rintraccia nel linguaggio stesso, riportandole così a un’antichità abissale, e sot­traendole ai confini di quella filosofia di cui Guénon non ha alcuna stima.

Evola era già collocato ben oltre la concezione astratta e del tut­to verbale della non-dualità, che per Guénon è il fondamento ulti­mo della tradizione. Il non-dualismo di Guénon conserva tutti i di­fetti del monismo vedantino e, pensato fino in fondo, comporta l’af­fermazione che il reale è illusorio. Al contrario, la concezione evo­liana del Principio non implica mai l’illusorietà del mondo, anche se poi va a imbrigliarsi in altri problemi legati alla dottrina delle due nature.

Per Guénon il Principio è inesprimibile in sé. Scrive Di Vona: «Riteniamo preminente la dottrina dell’inesprimibile nel pensiero di Guénon, e fondamentalmente islamica. A ben vedere, essa forma il fondamento stesso della sua idea di tradizione».[7] Inoltre, il Prin­cipio viene caratterizzato come uno. Infine, tutta l’esistenza, tutto il reale è unità: «Presa in tutta la sua universalità, l’esistenza è unica e comprende la realizzazione effettiva di tutte le possibilità e di tut­te le molteplicità della manifestazione. L’esistenza trae la sua unità dall’essere che abbraccia tutti gli stati di manifestazione e di non manifestazione».[8] Se l’interpretazione di Di Vona è giusta (e io credo che lo sia) siamo in pieno clima parmenideo.

Si può obiettare che Guénon concepisce un al di là dall’essere, inteso come stato incondizionato o possibilità universale, totale, in­finita e assoluta; ma si tratta di un «al di là» del tutto illusorio.

L’unità del reale si riferisce sia a ciò che è manifestato, sia a ciò che non è manifestato. Infatti il passaggio del non manifestato dalla possibilità all’atto è un’illusione relativa al punto di vista umano, interno alla manifestazione. Dal punto di vista del Principio, esso non esiste; tutto è simultaneo, il non manifestato è tanto in atto quanto il manifestato; per il Principio, la possibilità assoluta è tutta in atto, e dunque l’attualità del divino e la sua possibilità coincido­no, non nel senso che la potenza è preminente sull’atto, ma nel sen­so che tutto è ridotto ad attualità che esclude il divenire (dal «punto di vista» del Principio). Dunque, l’al di là dell’essere è, per il Prin­cipio, attualità, e si può parlare di aldilà e di non manifestazione solo dal punto di vista illusorio dell’uomo. Checché ne dica Gué­non, questa è filosofia, posta nel solco di Parmenide con tutti i suoi problemi, ed è filo­sofia che non sta in piedi.

Le conferme si hanno nell’accettazione guénoniana dell’unicità dell’atto di essere; nel significato puramente analogico e simbolico di essere ed esistenza (intesa quest’ultima etimologicamente come dipendere e non come emergere); nella concezione dell’intelletto divino come luo-go dei possibili, che sono attuali in Dio. Per Gué­non non può esistere niente di virtuale nel Principio, ma solo la permanente attualità di ogni cosa in un «eterno presente», ed è que­sta attualità che costituisce l’unico fondamento reale di ogni esi­stenza. Il fondamento del reale è l’attività della mente divina: attivi­tà in senso improprio, visto che il pensiero di Dio è la presenza contemporanea di tutti i pensieri possibili. Anche il termine pensie­ro è improprio, ma insostituibile. L’unico senso in cui si può parla­re di trascendenza è che il mondo è il pensato e Dio il pensante. Dio pensante (ma non si abbia in vista il pensiero razionale, discor­sivo) è il nucleo di ogni essere (essere = pensato da Dio). In questo senso il trascendente è anche immanente, pur non esaurendosi nel­l’immanenza. È il Sé (Soi), assolutamente impersonale: l’essere umano, gli esseri particolari, sono contingenti modificazioni che non hanno alcuna influenza sul Principio.

Il Sé non è mai individuato, né può esserlo, perché deve essere sempre considerato sotto l’aspetto dell’immutabilità e dell’eternità. È Dio in quanto pensante, necessariamente presente in me, in quan­to pensato, ma presente come altro da me; immutabile lui, e immu­tabile alla fine anche io, perché il passaggio dalla possibilità all’atto è relativo. Fuori dalla manifestazione non può esserci successione, ma solo simultaneità: anche il virtuale è realizzato nell’eterno pre­sente. Sotto il particolare punto di vista dell’eternità, la vita non si svolge, ma tutto è, ed è intelligibilità, intellezione.

Ora, il punto di vista dell’eternità è vero, mentre quello umano è illusorio: si può vedere qui uno sviluppo in senso razionalista e idealista. La persona umana ne risulta negata: «L’unicità della persona in tutte le sue manifestazioni e nell’im­manifestato, e l’unicità dell’intelletto trascendente e non umano che collega tutti gli stati dell’essere, comportano la negazione della singola persona umana e della pluralità delle persone divine ed umane».[9]

Alla base di tutta la sua visione, e come una garanzia di autenti­cità, Guénon pone il fatto dell’iniziazione e la conseguente tra­sformazione in essa della persona, che acquista la capacità di nuove evi­denze. Tuttavia, ammessa la realtà dell’iniziazione, resta la possibi­lità di discutere l’elaborazione teorica che essa subisce. L’esperien­za del sacro precede necessariamente la concettualizzazione del sa­cro, ma non garantisce che questa concettualizzazione sia ineccepi­bile. D’altro canto, tradizionalmente, l’iniziazione presenta almeno due interpretazioni (ve ne sono anche altre, ma sarebbero conside­rate poco ortodosse, in questo contesto, dagli scolastici guénoniani ed evoliani). Nel modo contemplativo alla Guénon, il punto che opera la trasformazione reale dell’uomo è l’intuizione intellettuale (buddhi), cioè qualcosa che non appartiene all’uomo, pur essendo dentro di lui come ingrediente costitutivo. Nell’altra interpretazione, invece, la forza che produce la tra­sformazione si innesta nell’uomo, ma questo innesto avviene a se­guito di un preciso comportamento umano, di una tecnica, persino di un modo che spesso viene simbolicamente descritto come vio­lento. L’iniziazione sarebbe, in questo caso, la conse-guenza di un’a­zione, che può anche non essere la contemplazione (che è, peraltro, un atto umano). Nel primo caso si ha una pre­minenza del momento intellettivo sull’azione e sul fatto: l’agente della trasfigurazione non può che essere di natura intellettiva e non personale; l’uomo può disporsi a riceverne l’opera trasfigurante, accedendo al massimo grado possibile di astensione dall’agire – la contemplazione, appunto, l’estensione dell’intelletto oltre ogni mi­sura.

La metafisica che ne deriva è necessariamente intellettuale, e sfocia in idealismo per la necessità di tener fermo il principio di unità all’interno di una speculazione in cui la realtà metafisica vie­ne differenziata completamente da ogni modo umano di vivere. L’aspetto problematico consiste nel fatto che, a seguito dell’iniziazione, l’uomo supera la condi­zione umana, tuttavia non cessa di essere persona; però è proprio questo carattere personale che risulta incompatibile con la concezione dell’essere come intelligibile. La comprensione concettuale della persona (compito inevitabile in quanto la persona è una realtà di fatto) implica una concezione dell’essere che non sia intellettuale e astratta, oltre che incapace di esprimere adeguatamente la vita reale. In un sistema intellettuale che perda l’aggancio con la concretezza, vivere risulta un’illusione. L’iniziato non cessa mai di essere persona, non si confonde mai con Dio, in nessuna tradizione.

Nella concezione magica di Evola, il ruolo assegnato all’uomo, che propizia l’innesto della forza trasfigurante, sfocia in una dottri­na di potenza, le cui conseguenze a volte fanno inorridire i contem­plativi: si finisce con l’accettare qualunque modo, purché sia effica­ce, per causare l’innesto. Si salva la realtà del mondo e della perso­na, ma si concepisce la realtà metafisica quasi nei termini di una forza meccanica. È il grosso pericolo del pensiero evoliano.

Il limite maggiore della metafisica immobilista è che si tiene ferma l’idea dell’unità del reale, concettualizzandolo attraverso il principio d’identità, al quale viene riconosciuto un valore ontologi­co. Questo principio grossolano, affermabile solo sulla scorta di una concezione dell’essere che solo esso rende possibile (plateale petizione di principio) è responsabile della caratterizzazione della realtà metafisica come realtà immobile, nonché della sopravvaluta­zione dell’intelletto come unica facoltà che consenta la concettua­lizzazione del reale. Naturalmente, i concetti sono entità immobili, ma questo non basta per parlare di razionalismo. Il razionalismo si ha quando questa concezione, proprio per la sua immutabilità, viene considerata più reale della real­tà sperimentata e vissuta. È un pre­giudizio che, una volta diventato operante, vanifica ogni distinzio­ne tra la ragione umana (che produce ipotesi) e l’intelletto divino. L’intelletto divino è superiore a quello uma-no, e non possiamo averne una concezione adeguata; però, se lo caratterizziamo come ragione, la distinzione tra i due livelli tende a scomparire. Inoltre, per Guénon l’intelletto, inteso come organo della meta­fisica, è in realtà Dio che illumina l’uomo: non si tratta di una sem­plice facoltà umana, ma di un elemento trascendente e non umano. Come per Spinoza, l’intelletto umano concepito da Guénon, è «parte» dell’intelletto superiore e infinito che procede immediata­mente da Dio. Ma, come si diceva, l’intelletto divino è puro atto: dunque, se così stanno le cose, non riusciamo più a capire cosa sia l’igno­ranza e come essa sia possibile nell’uomo.

La risposta, sorprendente contraddittoria, di Guénon è che l’ignoranza (data l’unità tra intelletto umano e divino) è anch’essa illusoria. Illu­sorio è qualunque punto di vista interno alla manifestazione. La metafisica di Guénon equivale alla contemplazione del reale a par­tire da un punto di vista del Principio, «esterno» rispetto alla manifestazione (almeno nel senso che è differenziato da qualunque altro possibile punto di vista interno alla manifestazione stessa, però con il pregiudizio che fuori dalla manifestazione la realtà metafisica sia immobile e di natura intellettuale. Dunque, ciò che quoad nos risulta, o si presenta, come ignoranza metafisica, si ritrova a essere incluso nel principio stesso.

Un altro gravissimo problema, che deriva dal pesante intellet­tualismo di Guénon, è la sua enorme svalutazione del fatto religio­so, che si ritrova anche in Evola. Per Guénon la religione è una for­ma esteriore, un apparato, di cui un’élite si serve. L’espressione è forte, ma è deliberata. È molto interessante, al riguardo, la ricostru­zione che Di Vona fa dell’interpretazione guénoniana del ruolo del cattolicesimo: «Per Guénon la forma religiosa comprende tutto ciò che occorre alla massa occidentale per farla partecipare indirettamente ai principi superiori. L’aspetto intellettuale puro della tradizione ri­guarderà solamente l’élite che sarà anche la sola a essere consa­pevole della comunicazione tra i due aspetti complementari e so­vrapposti della tradizione, e ne assicurerà l’unità».[10]

Di Vona sostiene che, almeno per un certo periodo, Guénon as­segna un compito restauratore al cattolicesimo, e non alla massone­ria, per puri motivi di praticità: perché ci si appoggiava a un’orga­nizzazione effettivamente esistente e radicata. Questa interpretazione del ruolo del cattolicesimo, inteso come mera struttura istituzionale, prescinde completamente dal punto di vista religioso, che Guénon considera diverso da quello metafisico e di rango inferiore. Il cattolicesimo è un’organizzazione, e in più ha un apparato di simboli: naturalmente, l’interpretazione dei simboli, per Guénon, è compito dell’élite. Ciò che i cattolici pensano, ad esempio dell’In­carnazione, non ha alcuna importanza, è exoterismo, fede grossola­na: quel che conta è l’interpretazione metafisica, esoterica, dei si­gnificati occulti. Che Cristo sia Dio e si sia incarnato veramente è una fanfaluca per il popolo che in questo modo, credendo fandonie, entra a partecipare alla mistica gerarchia tradizionale. Questo atteggiamento intellettuale è di una gravità inaudita. Ogni religione pretende di essere vera, e l’atteggiamento che ciascuno può legittimamente assumere rispetto ad essa è credere o non credere alla sua «verità»; ma ignorare la questione della sua verità e astrarre dalla sua realtà storica (cioè dal suo essere tradizione) solo un apparato istituzionale, una struttura sociale, significa svalutare completamente il suo carattere di religione. Più ancora: tale struttura organizzativa, assunta solo strumentalmente – come una scatola vuota, da riempire con contenuti eterogenei attraverso una facile reinterpretazione dei suoi simboli – verrebbe totalmente secolarizzata e potrebbe essere sostituita da una struttura qualunque: un partito politico, un circolo nobiliare, un ordine cavalleresco di carnevale, una bocciofila o, ancora, una loggia massonica.

Di fronte a questo modo di considerare la religione, che viene condiviso anche da Evola, ci si può indignare per l’orgoglio intel­lettuale necessario a considerarsi pubblicamente come gli addetti stampa del Padreterno, ma si può anche riflettere pacatamente e chiedere: visto che stiamo parlando di dottrine tradizionali, e che ci si fa vanto di esporre la tradizione, non di inventarla o elaborarne una teoria personale, in quale mai tradizione reale si può rintraccia­re un punto di vista analogo a presto? A parte il bric-à-brac della massoneria e dei patetici gruppetti gnostici moderni. Quanto poi alla pretesa che la massoneria sia un’autentica organizzazione ini­ziatica, pretesa coltivata a tratti da Guénon, il sottoscritto preferisce stendere sulla cosa un pietoso velo di silenzio.

Infine, veniamo al punto cruciale, che si ritrova anche in Evola. Per Guénon l’epoca attuale corrisponde alla negazione dei principi trascendenti, eterni e universali: il mon-do moderno è intrinseca­mente negativo. Nella concezione metafisica di Guénon, il mondo moderno è semplicemente un momento in un ordine più vasto, in un ciclo che, nella sua totalità, è ordine, è equilibrio di tendenze opposte. Lo sviluppo della manifestazione implica un allontana­mento dal Principio e quindi un ritorno. Però si era detto che il Principio è sempre «vicino» a ogni punto della manifestazione, perché tutto è rigorosamente attuale nell’eterno presente di Dio: non c’è alcun allontanamento, non c’è alcuno sviluppo della mani­festazione, dunque non si capisce quale ordine vi sarebbe nel mo­mento di caos all’interno del ciclo. Rigorosamente parlando, non c’è alcun ciclo.

Questa contraddizione è ancora nulla. Si ritiene infatti che la modernità sia lo sviluppo di possibilità inferiori incluse fin dall’ini­zio nel ciclo attuale della manifestazione, e chiamate a manifestarsi alla fine del ciclo stesso. Come può, però, Guénon abbandonare la sua prospettiva intellettuale, che considera tutto sub specie aeterni­tatis, e dichiarare inferiore la modernità, se questa stessa moderni­tà, dal punto di vista dell’eterno, è necessaria e legittima, ed è attua­le sempre, nell’eterno presente? E poi: inferiore in quale scala di misura? rispetto a cosa? con quale criterio di valutazione della su­periorità? Che ha da opporre Guénon all’obiezione che accettare il caos è lecito e ha un significato metafisico, all’interno della stessa concezione della realtà e del principio che ha formulato lui? Il fatto è che in Guénon manca (semplicemente: manca) la morale, o meglio: la formulazione di un giudizio morale (che è una valutazione di un fatto storico) è contraddittoria con la premessa metafisica che riduce tutto all’unità del principio. Chiuso nel suo monismo meta­fisico e statico, non riesce a concepire teoreticamente la libertà e l’assunzione di responsabilità che può produrre un atto illegittimo, arbitrario. Alla fine, la sola cosa che esiste è Dio, e Dio non pecca. Allora, che gliene viene all’uomo dalla rinuncia al divertimento e dall’impegno nella vita morale? Io credo che, da un punto di vista guénoniano, di fatto non gliene venga niente.

 

  1. Oltre Evola

Evola scopre Guénon nel 1928, secondo la sua stessa testimo­nianza, quando ha già interpretato l’idealismo nei termini della sua dottrina della potenza. Ha chiaro in mente che l’esperienza iniziati­ca è propiziata da un’azione diretta, principio che non è accettabile per Guénon. La concezione attiva di Evola è collegata alla dottrina delle due nature, l’essere e il divenire, che per lui è prima di tutto una con­statazione: l’analisi storica mostra infatti un dualismo di civiltà o di comportamento. Però Evola dà a questo dualismo una dimensione metafisica. La sua ricostruzione storiografica a posteriori della sto­ria utilizza delle categorie molto rigide: «Mondo moderno e mondo tradizionale possono venir considerati come due tipi universali, come due categorie aprioriche della civiltà».[11]

Qui scatta la stessa contraddizione presente in Guénon: se la modernità è una categoria metastorica, è negativa solo in senso re­lativo, non in senso assoluto, a meno che la negatività non caratte­rizzi in quanto tale la categoria metastorica stessa, cioè che sia in­trinsecamente negativo un elemento metafisico.[12] Il processo ciclico, che è una «legge generale oggettiva», è l’evoluzione da un archeti­po metafisico a un altro: per inserire questi due archetipi in una ge­rarchia di valori, che considera l’uno positivo e l’altro negativo, oc­corre un criterio estrinseco e anch’esso metafisico, per esempio una mo­rale che definisca a priori il lecito e l’illecito, sulla scorta di un de­creto divino. Il che, in Evola come in Guénon, manca.

Evola si rende conto del problema e cerca una soluzione di tipo stoico: il vero è vero, il valore è valore, punto e basta. La cosa è nobile, ma non elimina l’obiezione teorica, né si tratta di una qui­squilia. Ne derivano conseguenze gravi anche sul piano della vita quotidiana: sono molti che hanno tratto da Cavalcare la tigre una legittimazione dell’esistenza borghese, molti di più di quelli che hanno interpretato il libro in senso nichilista, facendo solo un mag­giore scalpore.

L’ultimo Evola, che lavorava a molte rettifiche, presenta spunti importanti e segni di recupero di un forte senso della storia e della persona umana concreta, spesso sacrificata nella sua speculazione precedente. Per esempio, in un articolo intitolato Il problema della decadenza, in Ricognizioni, dice che una gerarchia autenticamente tradizionale può essere rovesciata quando il singolo «usa della sua fondamentale libertà per privare la sua vita di ogni punto di riferi­mento e costituirsi a sé quasi come troncone».[13] Questa conce-zione della libertà, questo far dipendere la deca­denza, l’allontanamento dalla tradizione, da una scelta illegittima del singolo, implica una serie di rettifiche sul piano metafisico. Precisa Evola:

Quando la mitologia cattolica riferisce la caduta dell’uomo pri­mordiale e la stessa «rivolta degli angeli» al libero arbitrio, in fondo essa si riporta allo stesso principio esplicativo. Si tratta del temibile potere, insito nell’uomo, di usare la libertà nel senso di una distruzione spirituale, per respingere tutto ciò che può assi­curargli una più alta dignità. È questa una decisione metafisica, della quale tutta la corrente che serpeggia nella storia, nelle varie forme di apparire dello spirito antitradizionale, rivoluzionario, individualistico, umanistico, laicistico e infine «moderno», non è che la manifestazione e, per così dire, la fenomenologia. Questa decisione è la causa prima attiva e determinante nel mistero del­la decadenza, della distruzione tradizionale.[14]

Lasciamo stare il fatto che non è il cattolicesimo a «riportarsi» al principio esplicativo indicato da Evola, ma l’esatto contrario. La­sciamo anche stare il fatto che il libero arbitrio, essendo peraltro in­serito nel cattolicesimo in un quadro metafisico coerente, rende la questione della decadenza tutto tranne che un «problema» o un «mistero». Sta di fatto che, per la prima volta, Evola radica la modernità in una decisione libera dell’uomo, subordinando le categorie metastoriche, di cui aveva sempre parlato, a un atto libero, a un atto storico. Questo significa rinunciare al determinismo del ciclo: tradizione e modernità sono ora schemi concettuali che indicano la condizione effettiva di una società: se gli uomini hanno deciso, storicamente, di rendersi auto­nomi, sfruttando la loro costitutiva libertà, allora si produce la mo­dernità; se non lo decidono (e sono liberi di non deciderlo), allora la modernità non si produce; pertanto la decadenza non è un obbli­go, non è una legge generale metafisica: l’uomo è liberato dalle leg­gi cicliche.

Questo sviluppo ultimo di Evola rimane in sospeso, nella sua palese contraddizione col resto del suo pensiero: c’è un’interessante inserzione di idee cattoliche, nell’ultimo Evola, che squilibra il suo quadro teorico (e non mi si attribuisca niente di più di quanto sto dicendo).

In un altro saggio, Il mito di Oriente e Occidente e l’incontro delle religioni, Evola afferma il valore ristretto del monismo orien­tale, soprattutto delle formulazioni estreme del Vedanta. L’immuta­bilità, l’immobilità, l’indeterminazione del Principio implicano che, rispetto ad esso, l’universo sia illusorio. Ma, commenta Evola, «tutto questo sistema presenta i caratteri di una “filosofia di Dio”, ossia una visione sub specie aeternitatis, che sarebbe plau­sibile e senza difetto soltanto dal punto di vista dello stesso Prin­cipio, del Brahman, non già da quello dell’uomo nella misura in cui l’uomo non faccia senz’al-tro tutt’uno col Brahman. Altrimenti si affacciano subito gravi conseguenze».[15]

Cioè:

  1. Si parla dell’universo come passaggio all’atto, o sviluppo, di possibilità contenute nel Principio, ma contemporaneamente si dice che nel Principio tutte le possibilità sono in atto ab aeterno.
  2. Attribuire una parvenza di realtà al processo della manifesta­zione, per l’uomo che c’è dentro, «non regge» a causa della premes­sa monista, né si può affermare che l’uomo abbia un’esistenza pro­pria, senza rompere il monismo.
  3. L’affermazione dell’identità tra âtmâ e Brahman costringe a pensare che l’âtmâ nell’uomo soggiace all’illusione (mâyâ), con una reintroduzione della dualità nel principio.
  4. Quando si afferma che tutto, tranne il Principio, è apparenza, risulta che chi fa una tale affermazione, non essendo egli stesso il Principio, è egli stesso apparenza, e illusoria sarà la sua dottrina (argomento famoso del tantrismo).
  5. Il sistema filosofico monista è un’espressione concettuale di esperienza aventi un carattere sovrarazionale che viene presentato come assolutamente valido: si dice che questo è un arbitrio (ed è anche un si­luro di Evola contro Guénon):

Tale sistema è pregiudicato da una concezione statica del Prin­cipio. Non si vede perché la «manifestazione», pel fatto che essa ovviamente non esaurisce le infinite possibilità del principio, debba venire considerata come qualcosa di illusorio e di negati­vo, come una negazione. L’idea che ogni determinazione […] è negazione può applicarsi soltanto ad una sostanza immobile e ad una infinità malamente intesa.[16]

Si tratta di un assurdo, cui va opposta la concezione del princi­pio come potestas, ossia «capacità di essere incondizionatamente quel che vuole essere. L’assoluto vero non può avere, come un minerale o una pianta, una sua natura a cui è astretto. […] Egli è ciò che vuole essere, e ciò che vuol essere rispecchia senz’altro l’assoluto, l’infinito»[17].

(Si noti, di passata, la sorprendente affermazione, contenuta nel saggio, dell’impersonalità del Principio, dopo che Evola stesso lo ha caratterizzato come volontà, potenza, libertà e coscienza! O vo­gliamo veramente credere che il Dio personale sia la raffigurazione del vecchio cucco con la barba?).

È ovvio che questa posizione sia un addio a Guénon e all’ideali­smo, e un’affermazione (non nuova in Evola, anzi) della realtà del mondo. Resta però fermo il principio della non-dualità, nonostante l’idea dell’essere come potenza renda del tutto insignificante la po­lemica tra dualismo e monismo: entrambi i concetti perdono valo­re. Perché mai l’assoluto non dovrebbe porre in essere l’altro, inte­so come un nucleo autonomo di potenza, le cui determinazioni sono, in positivo, un profilo che lo definisce, lo costituisce come reale e autonomo

Se definiamo la struttura del divino come libertà-volontà-poten­za-coscienza, non possiamo più sottomettere il termine atto ai limi­ti del principio di identità: il potere di Dio è in atto quanto la sua coscienza, ed è un potere che le cose siano. Se l’atto dell’universo è il risultato di un potere che esso sia, allora Dio non è atto puro, ma è potenza in atto appunto come potenza, condizione prevista anche da Aristotele, con la quale la potenza acquista la priorità sull’atto.

Questa stessa struttura la ritroviamo nell’uomo, con l’avvertenza di Zubiri che, mentre Dio è assolutamente assoluto, l’uomo è rela­tivamente assoluto, e il limite che lo definisce come relativo è pro­priamente ciò grazie a cui è un uomo, e non un altro ente: è un nucleo personalizzato di libertà e potenza. Da qui certe possibilità inedite (inedite?) di interpretare simboli e im­magini tradizionali in una direzione ben diversa da quella dei tradi­zionalisti idealisti o romantici. Per esempio, il concetto di immagi­ne e somiglianza tra Dio e l’uomo potrebbe riferirsi alla struttura stessa dell’essere umano, pensabile come un deus occasiona-tus. O l’identità tra âtmâ e Brahman potrebbe essere intesa in senso molto profondo, non come riferimento a un asettico Sé, ma come identità strutturale del complesso potenza-libertà-volontà-coscienza, com­plesso dinamico e vi-vo, proiettato nel tempo secondo la paradossa­le formula delfica del divieni ciò che sei. Ma se nell’uomo il com­plesso è circoscritto dal limite che lo disegna, l’âtmâ è appunto la persona, la sua vocazione, il «chi sono», insomma il Me.

Evola ha superato le secche dell’idealismo (guénoniano e non), però non ha saputo coniugare la realtà dell’uomo e la sua abissale libertà metafisica, che pure gli si è imposta all’attenzione, con il va­lore della storia, dell’azione umana. Alla fine la concretezza che ha inseguito gli si è infranta su una formulazione puramente concet­tuale della tradizione.

Da: I Quaderni di Avallon, 10/1986, pp. 89-104.

Note

[1] Pietro Di Vona, Evola e Guénon, Napoli 1985, p. 15.

[2] cfr. ibid., p. 210, nota 119.

[3] J. Evola, Teoria dell’individuo assoluto, cit., p. 28.

[4] ibid., p. 250.

[5] P. Di Vona, Evola e Guénon, cit., p. 138.

[6] ibid., p. 69.

[7] ibid., p. 129.

[8] ibid., p. 131.

[9] ibid., pp. 138-9.

[10] ibid., p. 296.

[11] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 10.

[12] Date due categorie aprioriche, previe al divenire storico, posso io, individuo empirico, interno al divenire storico, assegnare ad esse un diverso valore solo in forma di ipotesi, di visione limitata dalla mia stessa empiricità; in nessun modo posso dare carattere di assolutezza alla mia valutazione, non essendo io stesso assoluto. O meglio, un modo c’è: fare un discorso razionale e postulare la sostanziale identità tra la ragione empirica e la Ragione intrinsecamente costitutiva del Principio.

[13] id., Ricognizioni: uomini e problemi, Mediterranee, Roma 1974, p. 46.

[14] ibid., p. 47.

[15] id., L’arco e la clava, Scheiwiller, Milano 1971, p. 186.

[16] ibid., p. 188.

[17] ibidem.